La lettera di recesso inviata da ArcelorMittal ai commissari straordinari Ilva Francesco Ardito, Antonio Lupo e Alessandro Danovi ha gettato di nuovo nel caos più totale la già intrigata e quasi decennale vicenda dell’ex Ilva di Taranto. Il gruppo anglo-indiano, che aveva preso in carico la gestione della più grande acciaieria d’Europa lo scorso 1 novembre 2018, ha deciso di venir meno all’accordo, in seguito all’eliminazione dell’immunità penale sul piano ambientale, stabilita dal decreto Imprese, divenuto legge in questi giorni. L’Ilva torna così a porsi come nodo cruciale della politica e dell’economia dell’intera nazione, dopo aver per sette lunghi anni segnato il profilo ambientale, occupazionale ed economico non solo della Puglia, ma dell’intero paese.
Il caso Ilva. Costruito nel 1961, quello di Taranto risulta ancora ad oggi essere il maggiore stabilimento dell’Ilva, la più importante acciaieria in Europa. Già negli anni ’80 però gli abitanti di Taranto, ed in particolare del vicino quartiere Tamburi, iniziano a notare un anomalo ed inquietante incremento delle morti e delle malattie da mesotelioma, leucemie, patologie tumorali e malattie della tiroide. Così vengono avviate le prime indagini, ma bisognerà attendere il 2012 per assistere al primo, concreto intervento della magistratura. È il 26 luglio 2102 quando “il gip di Taranto Patrizia Todisco – si legge su Tpi – firma il provvedimento di sequestro (senza facoltà d’uso) degli impianti dell’Ilva di Taranto e le misure cautelari per alcuni indagati nell’inchiesta per disastro ambientale a carico dei vertici aziendali”. Nello specifico vengono arrestati l’allora presidente dell’Ilva Spa Emilio Riva, suo figlio e successore Nicola, nonché l’ex direttore dello stabilimento di Taranto, Luigi Capogrosso, il dirigente capo dell’area del reparto cokerie Ivan Di Maggio e il responsabile dell’area agglomerato Angelo Cavallo.
Ad essere in pericolo, oggi come ieri, è quindi la salute degli operai, nonché degli stessi cittadini di Taranto. Il nodo centrale dell’intera vicenda Ilva è dato infatti dalla necessità di tutelare la salute dei tarantini, senza tuttavia chiudere lo stabilimento, in quanto quest’ultimo epilogo implicherebbe conseguenze disastrose sull’intera economia italiana. Ma allo stesso tempo resta allarmante il numero delle malattie e delle morti registrate sul territorio: secondo l’ultimo aggiornamento dello studio epidemiologico Sentieri nel sito di interesse nazionale di Taranto risulta in eccesso la mortalità per tumore del polmone o per le malattie dell’apparato respiratorio. Un altro incremento rispetto all’atteso ha interessato i casi di tumori del sistema linfoemopoietici, con un eccesso del 90% nel rischio di linfomi. In particolare, estremamente grave risulta essere il numero di bambini nati con malformazioni: su un totale di poco meno di 26.000 bambini nati dal 2002 al 2015, ben 600 soffrono di una malformazione congenita (9% in più dell’attesi).
Non trascurabili sono però gli stessi dati economici riguardanti il ruolo svolto dall’Ilva sull’intera ricchezza del paese. Come dimostra l’indagine Svimez condotta per Il Sole 24 Ore, infatti, nei sette anni trascorsi dal sequestro compiuto dalla magistratura di Taranto sono andati persi 23 miliardi di euro di Pil, pari all’1,35% della ricchezza nazionale. Una perdita confermata anche nell’ultimo anno, ovvero nel periodo di gestione di ArcelorMittal: i dati registrano infatti nel 2019 una perdita secca di 3,62 miliardi di euro, anche conseguenza della decisione del colosso anglo-indiano di mantenere la produzione di acciaio a 5,1 milioni di tonnellate, anziché raggiungere i 6 milioni promessi. Inoltre, a riprova della forte integrazione dell’economia nazionale, sono stati ben 7,3 i miliardi di euro di Pil persi dal Nord industriale, la cui produzione è strettamente basata sulle risorse di acciaio fornite dall’Ilva di Taranto. Tanto che in questi anni le industrie del settore metalmeccanico sono dovute ricorrere all’acciaio coreano e cinese, facendo registrare un incremento dell’import pari a 1,4 miliardi di euro.
Sarebbero inoltre 10.777 i posti di lavoro a rischio in seguito al ritiro annunciato di AncelorMittal. Il gruppo anglo-indiano infatti gestisce, oltre a quello di Taranto, stabilimenti anche a Genova, Novi Ligure, Milano, Racconigi, Paderno Dugnano, Legnaro e Marghera, “per un totale appunto – si legge su Il Messaggero – di 10.351 dipendenti”, di cui 8.700 fanno riferimento allo stabilimento di Taranto. Ad essi si aggiungono gli oltre 400 dipendenti delle società del gruppo, ovvero Amis, Am Energy, Am Tabular, Am Maritime. È evidente dunque come la risoluzione di questa annosa vicenda sarà determinante per il futuro non solo di migliaia di italiani, ma anche dell’attuale esecutivo.