Non c’è dubbio che “Smart-working” sia una delle parole più adoperate nelle ultime settimane. L’emergenza corona virus ha avuto quantomeno il merito di rendere chiaro a tutti, soprattutto ai detrattori, l’importanza delle forme di lavoro cosiddette intelligenti rese possibili dalle nuove tecnologie che spesso sono invece state additate di attentare alla centralità delle persone nel mondo del lavoro.
Proviamo per un attimo ad immaginare cosa sarebbe successo se questa emergenza l’avessimo dovuta affrontare senza email, video chiamate e sistemi di condivisione dei documenti via Cloud. Se da un lato si può affermare che la centralità delle persone resta e resterà immutata, o anzi a mio avviso potenziata, va anche sottolineato come queste nuove forme di lavoro riscrivano profondamente, tra gli altri, i paradigmi di fiducia e controllo che intercorrono non solo tra il datore di lavoro e il lavoratore, ma anche tra clienti e fornitori e più in generali tutti gli attori del panorama economico. Mentre in passato gli indicatori e strumenti di controllo principali erano la presenza fisica e il controllo del tempo oggi sempre di più il focus si sposta sulla prestazione, sul risultato. Per quanto banale questa affermazione possa sembrare, implica enormi cambiamenti culturali e soprattutto di organizzazione del lavoro e di modalità di definizione degli obiettivi stessi.
Facciamo un passo indietro: Cosa significa Smart Working? Spesso si tende a semplificarlo in “lavorare da casa”. L’Osservatorio del Politecnico di Milano invece lo definisce: “una nuova filosofia manageriale fondata sulla restituzione alle persone di flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati”. Da questa definizione, molto più ampia ed esauriente, si capisce che il modo di lavorare cambia a prescindere dal luogo e dal tempo in cui si svolge la propria attività e pertanto implica cambiamenti anche all’interno dei luoghi di lavoro e delle organizzazioni nell’accezione gerarchica del termine. Per mantenere fede al significato contenuto nel nome stesso di Smart-working, che letteralmente si traduce in “lavoro intelligente” evolutasi dall’iniziale “telelavoro”, bisogna comprendere che questo ha poco a che vedere con lo svolgimento le stesse attività di prima ma dalla scrivania di casa anziché da quella dell’ufficio.
Quali sono i paesi più avanzati? Lo studio intitolato “Working anytime, anywhere: The effects on the world of work” è stato condotto nel 2017 da Eurofound e dall’Organizzazione Mondiale del Lavoro mettendo a confronto tra loro i Paesi dell’Unione Europea con altri in cui lo smart working è già molto diffuso (es. Stati Uniti, Giappone). In Europa l’Italia è risultata ultima, preceduta da Grecia, Repubblica Ceca, Polonia, Slovacchia ed Ungheria. In testa troviamo Danimarca e Svezia seguite da Paesi Bassi, Regno Unito, Lussemburgo, Francia ed Estonia. La media Europea di smartworkers è del 17% (di cui nel 10% dei casi viene alternato il lavoro d’ufficio).
Va infine ricordato che lo smartworking non cambia solamente il modo di lavorare, ma anche l’accesso al mondo del lavoro, la dislocazione geografica delle attivita e finanche l’urbanistica delle citta’ per esempio per quanto riguarda i trasporti (pubblici e private) e le dinamiche immobiliari. In Giappone viene incoraggiato il lavoro a distanza anche per ridurre gli spazi negli uffici e ridurre i costi, molto elevati, di affitto. Nelle grandi città brasiliane la riduzione dei tempi di spostamento e del traffico sono un incentivo enorme e hanno consentito di rivalutare molte zone residenziali che da anni subivano una contrazione della domanda. Negli Usa la percentuale di smart working ha toccato il 37% ed è stato accertato che il 78% delle ore di lavoro svolte in più (tra il 2007 e il 2014) sono attribuibili allo smart working.