“Le ragioni storiche, politiche e partitiche che portarono alla divisione tra i sindacati italiani non esistono più. Oggi possiamo avviare un nuovo processo di unità tra Cgil, Cisl e Uil”. Questo concetto è stato espresso da Maurizio Landini, segretario generale della Cgil, il primo maggio, prima in una lunga intervista Repubblica intitolata «Un solo sindacato per il lavoro» e poi in un comizio a piazza Maggiore a Bologna.
Innanzitutto, è curioso notare come l’appello alla riunificazione delle sigle sindacali venga dalla Cgil, il sindacato che più di tutti negli ultimi anni – si vedano i contrasti sull’articolo 18 o il caso Pomigliano – ha nuotato contro la corrente che spingeva verso l’unità del fronte sindacale. Spesso la più antica delle tre principali sigle si è arroccata in uno splendido isolamento, rinunciando al confronto tra le parti sociali.
Per alcuni versi, è logico concordare con Landini: è un fatto storico e partitico acclarato che i tre grandi partiti – comunista, socialista e democristiano che nel 1948 guidarono la scissione della Cgil unitaria – non esistano più. È altrettanto ovvio che le ragioni dietro all’appello di Landini siano politiche: in un momento di devastante crisi del sindacato, il segretario della Cgil cerca di concentrare intorno alla sua sigla tutte le forze disponibili.
Per uscire dal terreno caro a monsieur de Lapalisse, occorre però andare oltre alle ovvie constatazioni «storiche, politiche e partitiche» per cercare di comprendere – e quindi porre un primo tassello per la soluzione – della crisi della rappresentanza nel nostro paese. Il motivo dell’allentamento della presa da parte del sindacato sulla nostra società ha una profonda motivazione culturale: oggi i lavoratori non condividono più l’impianto generale proposto dal sindacato in tema di lavoro. Nel 1948 c’erano tre livelli piramidali: operaio, intermedio e dirigente, l’azienda tipo aveva 1000 dipendenti, 50 quadri, 6 dirigenti. Era dunque più semplice organizzare in maniera collettiva un’impresa. Oggi è difficile per il sindacato a livello locale – figuriamoci in quello nazionale – unire laddove esiste un incredibile frazionamento nell’organigramma d’impresa e nelle dinamiche contrattuali. Questo frazionamento altro non è che lo specchio di ciò che accade nella società civile.
Non servono slogan elettorali ma regole chiare, visione del quadro d’insieme e progettazione affinché le parti sociali tornino ad essere i driver delle riforme sociali nel nostro paese. In sostanza, non serve un sindacato unico ma un’unica visione del mondo del lavoro!
Chiudo con una domanda provocatoria: ma come possono essere “diversi” gli interessi dei lavoratori, come può tale diversità addirittura frazionare il “Sindacato”?