Il nuovo contratto a tempo indeterminato introdotto dal Jobs Act, che si definisce a tutele crescenti, in realtà è una “bufala nominale”. Nel senso che non è scritto da nessuna parte che le tutele crescono con l’anzianità lavorativa. Si tratta, invece, di una mera riforma della disciplina di licenziamento individuale e collettiva e in modo specifico dell’impianto sanzionatorio previsto dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Questo è il contratto a tutele crescenti. Perché allora non chiamarlo in altro modo? Domanda ingenua.
Nella sua concezione letterale il contratto a tutele crescenti dovrebbe indicare un percorso di partenza con un numero di tutele x che crescono con l’anzianità lavorativa. Nelle ipotesi che sono circolate negli anni precedenti si pensava ad un contratto che nei primi 3 anni di lavoro non prevedesse l’applicazione dell’articolo 18 che sarebbe scattato solo dopo tale soglia, magari anche attraverso l’allungamento del periodo di prova. In sostanza si voleva favorire, per legge, il ricorso al contratto a tempo indeterminato nella fase d’ingresso nel mondo del lavoro attraverso un suo “alleggerimento” temporaneo per “appesantirlo” dopo un certo periodo e dopo aver riscontrato le ragioni per un rapporto di lavoro lungo. Con il crescere dell’anzianità lavorativa sarebbero cresciute le tutele e quindi la stabilizzazione. Questo l’impianto pensato dal professor Ichino in passato, almeno così pensavo. Di questo schema nel nuovo contratto previsto dal Jobs Act non c’è traccia, a dispetto della sua definizione.
In realtà, ciò che cresce è l’indennità di licenziamento e la durata dell’indennità di disoccupazione. In altre parole, aumenta il risarcimento economico in caso di licenziamento in funzione dell’anzianità, mentre lo scopo delle tutele crescenti doveva essere quello di individuare un percorso più flessibile e duttile di “stabilizzazione” del rapporto di lavoro dopo un certo periodo di tempo in cui si poteva licenziare senza l’assillo dell’articolo 18.
In sostanza, invece, il contratto a tutele crescenti introdotto dal Jobs Act è la ridefinizione delle sanzioni previste nei casi di licenziamento economico e disciplinare “illegittimi”, in cui non è più previsto il reintegro nel posto di lavoro ma il solo pagamento di un indennizzo economico che varia da un minimo di quattro fino ad un massimo di 24 mensilità (2 mensilità per ogni anno di sevizio). Solo nei casi di licenziamento soggettivo (o giusta causa) in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto contestato, il giudice può annullare il licenziamento e predisporre il reintegro in azienda. In altre parole, il lavoratore dovrà produrre la prova (assai difficile) certa e inequivocabile dell’insussistenza delle ragioni del licenziamento per ottenere il reintegro, senza la quale prevale il licenziamento con indennità economica.
Secondo il professor Ichino questa riforma porterà ad un boom di contratti a tempo indeterminato nelle nuove assunzioni, dimenticando di aggiungere, però, che la spinta più forte verrà soprattutto dall’azzeramento dei contributi previsti nella Legge di Stabilità 2015, e non per la bontà della riforma in sé.
Nota di merito, invece, al decreto delegato sul contratto a tutele crescenti per l’introduzione definitiva del contratto di ricollocazione che verrà stipulato a conclusione del rapporto di lavoro e che dovrebbe rappresentare il fondamento su cui rilanciare le politiche attive del lavoro. Su questo tema tornerò con un prossimo articolo.