“Ma non è che poi posso essere licenziato in qualsiasi momento?” È questa una delle domande che più spesso mi viene fatta quando si valuta un’opportunità lavorativa all’estero. Senza entrare in cavilli e dettagli troppo complessi, partiamo da dati oggettivi: l’OCSE pubblica un indice chiamato Employment Protection Legislation index (EPL) dove vengono presi in considerazione 18 fattori classificabili in 3 macro aree: 1) protezione legislativa; 2) requisiti necessari per i licenziamenti (individuali e di massa); 3) regolamentazione delle forme di lavoro temporaneo. Nel complesso paesi come Belgio, Francia e Lussemburgo ottengono un indice di protezione più alto dell’Italia e paesi come Germania, Spagna e Grecia non sono molto distanti e fanno addirittura meglio del belpaese, insieme ad altri come Norvegia e Brasile, per quanto riguarda la protezione relativa ai contratti temporanei. Va sottolineato infine che i dati relativi all’Italia risalgono ad alcuni anni fa e pertanto non prendendo in considerazione recenti riforme che ne hanno reso il mercato del lavoro più flessibile e meno protetto.
Ma siamo sicuri che protezione significa maggiore e migliore occupazione? Sempre l’OCSE calcola un altro indice che misura invece il livello di insicurezza (ovvero la probabilità di perdere il lavoro); il risultato in questo caso non è determinato solamente da quanto complessi siano i licenziamenti ma anche dalle condizioni macroeconomiche e dalla facilità di creazione di nuovi posti di lavoro. In questa classifica, dove nessuno vorrebbe essere in testa, l’Italia purtroppo si piazza quarta. E’ intuitivo comprendere come creare le condizioni affinché chi perde il lavoro ne possa trovare presto un altro sia altrettanto importante rispetto alla protezione dei lavori esistenti. E ovviamente condizioni quali un mercato del lavoro rigido, scarsi investimenti in formazione e welfare carente non aiutano i lavoratori a re-impiegarsi ne’ le imprese ad assumersi il rischio di creare nuovi posti di lavoro.
Allora la soluzione è la flessibilità? Nonostante per anni questa sia stata la teoria, anche l’ultimo rapporto dell’OCSE pubblicato a dicembre 2018 ha evidenziato che le sole politiche di flessibilità, seppur necessarie per adeguarsi ad un mondo che cambia, non sono state sufficienti a creare nuovi posti di lavoro. Paesi invece come Norvegia, Svezia, Danimarca e Islanda che stanno investendo sulla qualità e sull’inclusività stanno ottenendo risultati decisamente migliori. Rendere il mercato del lavoro troppo rigido significa scaricare interamente sulle aziende l’onere di far fronte ai mutamenti sempre più repentini del contesto, viceversa puntare tutto sulla flessibilità significa lasciare l’onere agli individui ed, in ultima istanza, all’apparato pubblico che deve farsene carico.
In sintesi, pur essendo un paese con un alto livello di protezione del lavoro, l’Italia non è il posto in cui le garanzie sono necessariamente le migliori e dove mi sentirei più protetto dal rischio di rimanere senza un lavoro. Forse è un po’ più difficile “perdere” un lavoro (purché ne abbia uno a tempo indeterminato e con tutte le garanzie), ma quando un licenziamento è inevitabile anche in Italia esistono gli strumenti per far si che ciò avvenga. Dall’altro lato è certamente più difficile “ri-trovarne” uno nuovo. È l’equilibrio tra queste due forze (protezione in uscita e apertura in ingresso) che va effettivamente valutata quando si guarda al mercato del lavoro di un paese.