Tanto tuonò che piovve. Sul problema della regolamentazione contrattuale degli operatori della gig economy si discute da anni ma ancora una volta, come troppo spesso accade nel nostro paese, la politica non è stata capace di fornire una soluzione pratica alla questione. In via eccezionale e spesso salomonicamente, interviene la magistratura a dirimere, non regolare la situazione. Il risultato finale è l’esplosione dell’odio sociale.
La lista della discordia. Il 25 aprile, su una pagina Facebook – di cui non si conoscono i gestori – un collettivo di sedicenti riders ha pubblicato una lista nera con un elenco dei nomi e cognomi di vip e star che, a loro dire, ordinano con le app senza lasciare la mancia ai fattorini. Il tono accusatorio e classista altro non è che il frutto dell’esasperazione della categoria più esposta all’attenzione dei media, in un settore da anni alla ricerca di una legislazione, continuamente promessa e puntualmente disattesa.
Legislazione contrattuale, non mance. Senza entrare nel merito – o forse, demerito- della questione morale e classista che disputa su un’elargizione su base volontaria per ricompensare un servizio, occorre alzare il tiro del dibattito. L’obbiettivo del j’accuse del collettivo, fortemente criticato e denunciato alle autorità competenti da AssoDelivery – l’associazione di cui fanno parte le principali società che gestiscono i servizi di consegna di cibo a domicilio- è errato. E la notorietà dei personaggi inseriti nella black list rischia di distogliere dalla vera questione da dibattere: quella dei diritti dei lavoratori.
Il presunto superamento di una condizione di lavoro inaccettabile, antistorica ed ingiustificabile per un paese civile nel XXI secolo, deve passare attraverso un’azione normativa ad opera della politica.
Jobs app. Recentemente in un libro mi sono occupato del Jobs App, un termine da me coniato per definire il necessario e non procrastinabile contratto di lavoro per l’app economy, un modello che si basa su un rapporto discontinuo, in base alle richieste e mediato da piattaforme digitali. Non è possibile applicare all’app economy le regole del lavoro dipendente – altrimenti otterremmo la sua scomparsa – ma è necessario intervenire per fornire le tutele minime in un contratto che sia adeguato ai tempi ed alle esigenze del settore. Ritengo che siano tre i punti fondamentali su cui impostare il Jobs App:
– una retribuzione variabile legata alla prestazione e non al tempo messo a disposizione;
– un minimo per retribuire la prestazione a seconda del settore, della concorrenza e del mercato, per tutte le aziende della gig economy;
– un welfare di settore che – con una percentuale fissa, obbligatoria e aggiuntiva su ogni retribuzione- finanzi un fondo di categoria per coprire malattia, assicurazione sanitaria e infortunio.
Il milione di operatori della gig economy – quasi 150mila a tempo pieno – attende questa apertura normativa che è possibile mettere in atto. Fino a quando la politica non interverrà a regolamentare, la situazione rimarrà in balia degli interventi riparatori e non pianificatori della magistratura, e dell’odio sociale. Le soluzioni esistono, occorre solamente trovare il coraggio e la fermezza politica per metterle in atto.