Questa settimana, una bella video-inchiesta del Corriere della Sera sui laureati che lavorano nei call centre, ha ripreso in maniera molto coinvolgente il problema della frustrazione occupazionale di giovani, e purtroppo anche meno giovani, ingabbiati in un lavoro poco remunerativo e non attinente al loro percorso di studi. Sorgono però delle problematiche nell’articolo a commento del reportage, nel quale viene snocciolato un dato Istat secondo il quale un laureato su tre sarebbe “iperqualificato” rispetto alle mansioni che svolge.
Iperqualificato. L’errore sta nell’etichetta di “iperqualificato” utilizzata per commentare la posizione dei laureati che non troverebbero una mansione lavorativa corrispondente al loro grado di istruzione. Ma la “qualifica” lavorativa non ha una correlazione automatica con il percorso di studio, altrimenti non esisterebbero i contratti di apprendistato, stage o l’alternanza scuola-lavoro. Quello della mancanza di connessione tra il mondo dell’istruzione ed il mercato del lavoro è un problema che esiste da sempre – che casomai si è ingigantito al giorno d’oggi – dovuto alle, diverse e forse erronee, politiche del lavoro di ogni Stato.
Lavoro povero. A completare il quadro erroneo c’è la definizione di “lavoro povero” nel titolo e poi ripresa nel corpo dell’inchiesta che corre il rischio di sfociare nella sfera della “dignità ” – che giĂ non poco danno sta recando al mondo del lavoro. Per quanto non si tratti di lavoro sufficiente ad assicurare ad un solo componente della famiglia «un’esistenza libera e dignitosa», come richiamato nell’articolo 36 della nostra costituzione, allo stesso modo i dipendenti dei call centre non svolgono quelli che banalmente sono definiti “lavoretti”. Gli operatori telefonici godono di ampie tutele contrattuali, normate a partire dalla Circolare Damiano del 2006, fino ad essere inquadrati nel CCNL Telecomunicazioni. Forse, è proprio questo il problema. Molti lavoratori che ricorrono a queste tipologie di “lavori poveri” ma tutelati, interrompono il proprio percorso di crescita professionale, per mancanza di alternative.
Questo è un modo superficiale di comunicare il lavoro ed il suo mercato che si permette quasi di sottintendere una distinzione morale tra bello e brutto, degno e indegno.
Riscontro con preoccupazione un certo grado di sottovalutazione dell’impatto della comunicazione sulla percezione del mondo del lavoro, aggravata da commenti assolutamente non costruttivi che sfociano nel politico.