Secondo alcuni dati pubblicati dal Corriere della Sera pochi giorni fa, alla domanda: “sei più preoccupato per gli italiani che vanno via o per le persone che arrivano da altri paesi?” sono ben 2 italiani su 3 quelli che si dicono più preoccupati o ugualmente preoccupati per l’emigrazione o per la cosiddetta fuga di cervelli. Se non si considera chi pone i due temi sullo stesso piano, il 32% si dice più preoccupato dai flussi in uscita mentre il 24% teme maggiormente gli effetti dei flussi in ingresso. Questo sentimento inoltre e’ confermato anche in molti altri paesi europei da est (Romania, Ungheria e Polonia) a ovest (Spagna).
Cosa dicono questi numeri? Queste percentuali fotografano una tendenza in atto da diversi anni ovvero quella della sempre crescente mobilità territoriale che ormai viaggia su numeri e distanze geografiche che crescono continuamente. Mentre in passato ci si muoveva dalle campagne alle città o da Sud a Nord, oggi con sempre maggiore facilità ci si sposta su scala Europea e mondiale. I numeri dicono anche che, nonostante la propaganda e la demagogia che purtroppo si fa sull’argomento, gli italiani che lasciano l’Italia sono di più degli stranieri che arrivano e che questo dato inizia ad essere compreso e temuto. Sono stati circa 285 mila nel 2017 gli Italiani che si sono trasferiti all’estero contro poco più di 110 mila arrivi (fonte Idos e ISTAT) oltretutto con uno sbilanciamento ancora maggiore nel 2018 ed una accentuata riduzione dei rientri. Se poi ci si sofferma sul fatto che la scolarizzazione media di chi parte è in aumento (quasi un terzo sono laureati) e che l’Ocse ha stimato che il “costo” per il paese è di circa 164 mila euro per un laureato e 224 mila per un dottore di ricerca… allora si capisce che le preoccupazioni sono più che fondate.
Quali le cause e gli effetti? L’origine di qualsiasi fenomeno migratorio va certamente ricercata tra le carenze di un paese nel soddisfare le aspettative di chi lo popola (tassi di occupazione, meritocrazia, sicurezza, burocrazia, fiscalità, servizi, sono alcune delle variabili di questa complicata equazione) dall’altro lato bisogna comprenderne anche gli impatti sociali. Se si pensa nello specifico all’Italia, questo fenomeno sta mettendo alla prova, tra gli altri, uno dei cardini su cui la nostra cultura si è sempre basata ovvero la famiglia. Basta pensare alla nuova figura dei “nonni 2.0” che per effetto di questi spostamenti sono costretti ad imparare ad usare tutti i ritrovati tecnologici disponibili per restare in contatto con nipotini e figli lontani. Che hanno dovuto sostituire il pranzo della domenica con una videochiamata e riescono a vedere i propri amati per le feste e, quando fortunati, per qualche weekend lungo. Allo stesso modo si può pensare alle difficoltà di chi si trova ad invecchiare da solo o a crescere i figli senza aiuti, diventando necessariamente esperti nel reclutamento e nell’organizzazione a matrice di baby-sitter su turni h24 con rimpiazzo immediato in caso di raffreddore, vacanza o quant’altro.
Esiste una soluzione? Nel breve periodo no, e non penso che si debba cercare una soluzione nel senso di porre un freno a tale fenomeno. In ogni caso a mio avviso la strada non è scoraggiare “le partenze” dall’Italia o per l’Italia, chiudere le frontiere e rifugiarsi nazionalismi che l’ondata di populismo che vediamo in molti paesi sta portando con se. Dall’altro lato la globalizzazione viene anche giustamente messa in discussione e se anche non si arresterà nei suoi principi certamente necessiterà di profonde revisioni e porrà quotidianamente i governi di fronte scelte importanti. La strada da percorrere è quella di chiedersi come essere il paese dove è una fortuna nascere ma soprattutto una scelta restare o venirci ad abitare. Con regole chiare e rispettate da tutti.