La vita cambia a 50 anni. Come? Facendo valigie e partendo per destinazioni, impensabili fino a qualche anno fa. Succede ai tanti medici di base italiani, ma anche primari e chirurghi che stanno rinunciando al posto fisso per raggiungere strutture specializzate alle Hawaii, nei paesi nordici, su tutti la Svezia, o ancora nei lontani Qatar ed Emirati Arabi.
Si tratta di una sorta di ‘globalizzazione della sanità’ che prende forma dalla voglia di migliorare la propria carriera, offrendo però allo stesso tempo, tante opportunità per tutta la famiglia. I figli studiano in buone università imparando nuove lingue e aprendosi a paesi con un mercato del lavoro più dinamico e i padri o le madri in camice bianco arrivano addirittura a triplicare il proprio stipendio.
Valigie pronte per tutta la famiglia – Stefano Pecora, 55 anni, è un primario di laboratorio d’analisi. Ha appena inviato il suo curriculum a un’importante headhunter, un cacciatore di teste che si occupa del settore sanitario: “Sto valutando offerte per Doha e Abu Dhabi, dove ci sono strutture di un certo livello, all’avanguardia con la ricerca scientifica e soprattutto con posizioni aperte per medici italiani. In questi paesi noi siamo davvero ben considerati”. Con lui, sono pronti a far le valigie una moglie e due figli, di dieci e dodici anni: “Quando ti assumono – racconta -, oltre a darti uno stipendio tre volte superiore a quello italiano, si occupano anche del vitto e dell’alloggio per te e tutta la famiglia. In paesi in pieno sviluppo come questi ci sono anche più opportunità per i miei figli”.
La burocrazia blocca la professione – Segue queste ormai anche Elisabetta Songiu, medico di famiglia di 61 anni, di origine sarda, che da due mesi frequenta un corso d’inglese full time. Sta per partire, con marito e figlio di 21 anni, per la Nuova Zelanda: “Ho mandato una mail – dice – e, in una settimana, mi sono arrivate quattro proposte di lavoro per aprire uno studio. In Italia la professione è ormai ingestibile, per via dell’eccessiva burocrazia. Le norme cambiano in continuazione, fino a complicarsi a dismisura”.
Meglio la precarietà ai mercati chiusi – Gregorio Maldini, invece, è un chirurgo di 48 anni ed è anche il medico che ha effettuato il primo trapianto pediatrico di intestino mai eseguito in Italia. “Sono di Roma, ma ho lavorato a Bergamo – racconta Gregorio da Honolulu -. Lì eseguivo cento interventi all’anno, ma oggi che vivo alle Hawaii ne posso contare oltre settecento. Qui non esistono liste d’attesa infinite per i pazienti e, a differenza di quello che si dice, si curano gratuitamente anche malati senza assicurazione”.
Non sono state solo l’aria pulita, il mare e le temperature calde, comunque, a convincere Gregorio e sua moglie, una romagnola doc, a lasciare amici e parenti: oggi il suo stipendio si aggira intorno ai 300mila dollari all’anno, quattro volte il suo compenso italiano. “Il sistema americano è completamente diverso: non c’è una gerarchia da superare per poter effettuare determinate ricerche, lavora chi è capace e chi viene giudicato positivamente dai pazienti. Abbiamo un rating e degli standard da mantenere: se non li rispettiamo, siamo fuori, licenziati. È la voglia di mantenere il posto fisso che blocca il mercato italiano”.
Negli Stati Uniti, oltre a lui lavorano ben 5500 medici italiani, il gruppo più numeroso di stranieri. Fino a pochi anni fa questa era una prassi comune ai neolaureati, ora invece è cambiata la generazione dei ‘bisturi in fuga’: segno della mobilità del mercato internazionale e segno anche della voglia degli italiani di rimettersi in gioco a qualsiasi età”.