Consultare il proprio profilo Facebook, aggiornare la propria pagina LinkedIn o caricare nuove immagini su Instagram durante l’orario di lavoro è prassi abitudinaria per moltissimi italiani, una diretta conseguenza del fatto che in Italia oltre il 97% degli addetti si collega in Rete più volte al giorno. Mantenere completamente separate vita privata e professionale nel corso di una giornata lavorativa (e oltre) è quindi difficile (se non impossibile), con tutte le conseguenza del caso. Un recente studio (il Global Privacy Report, condotto lo scorso dicembre su un campione di circa 12mila persone in tutto il mondo, di cui 500 in Italia, sui comportamenti in tema di privacy online) diffuso dalla società di sicurezza russa Kaspersky Lab ha rivelato in proposito come un lavoratore su due (il 59% a livello globale e il 57,5% in Italia) scelga volontariamente di nascondere la propria attività sui social media ai propri responsabili. Un atteggiamento di riservatezza conclamato che si estende anche ai colleghi: il 61% degli intervistati in Italia, infatti, preferisce non rivelare le proprie attività online nemmeno ai vicini di scrivania.
Facebook al lavoro? Si rischia il licenziamento. Una sentenza dei giudici di Cassazione di inizio febbraio ha reso definitivo il licenziamento di una donna della provincia di Brescia, impiegata come segretaria part time in uno studio medico. La Suprema Corte, nell’occasione, ha certificato la decisione emessa dalla Corte d’Appello, che aveva ritenuto la gravità del comportamento in “contrasto con l’etica comune”, tanto da incrinare il rapporto di fiducia fra dipendente e azienda. Sull’utilizzo degli strumenti social durante l’orario di lavoro, e di Facebook nel caso specifico, la magistratura si è espressa in modo chiaro, avvalendosi come prova degli accessi a Internet della lavoratrice memorizzati nel computer (di questi accessi il 75% era indirizzato alle pagine del social network) nonostante sia evidente, a detta di vari esperti, una certa vacuità normativa sul tema. Non esiste cioè una legislazione dedicata sull’argomento, e il lavoro dei giudici rischia di conseguenza di basarsi su presupposti e parametri poco concreti. Il fenomeno, come dimostra però il rapporto di cui sopra, è assai diffuso e meriterebbe un’attenzione regolatoria decisamente maggiore.
Preservare le prospettive di carriera. Nel corso della propria attività professionale, lo dicono vari studi in materia, le mansioni prettamente lavorative non occupano tutto il tempo a disposizione: quasi due persone su tre, mediamente, ammette di visitare ogni giorno, dalla propria scrivania, siti Web non legati alla propria funzione. L’indagine di Kaspersky conferma in proposito come quasi un terzo dei lavoratori (il 29% per la precisione) non voglia che il proprio datore di lavoro sia a conoscenza delle proprie attività di navigazione online e tale percentuale sale al 37% per i lavoratori italiani. Far sapere al proprio capo che si è perso del tempo nel corso del proprio orario lavorativo, in generale, viene inoltre percepito come una minaccia per le proprie prospettive future, perché c’è una diffusa preoccupazione di ledere l’immagine dell’azienda e che quest’ultima, in caso di rilevamento della produttività dello staff, possa monitorare i social network dei dipendenti e utilizzare i dati trovati per valutare eventuali avanzamenti di carriera. Da qui l’omertà, verso il datore di lavoro o il diretto responsabile, sulle proprie attività sui social network o sul contenuto dei propri messaggi e delle email. Timori eccessivi? Probabilmente sì, ma il 5% del campione su scala globale (e il 3,4% di quello italiano) ha confermato come la propria carriera sia stata irrevocabilmente danneggiata a causa della “condivisione non desiderata” delle proprie informazioni personali.
Qualche consiglio utile. “È difficile fissare un limite tra vita digitale al lavoro e a casa, e questo non è né un bene, né un male. Bisogna semplicemente ricordare che, in quanto lavoratori, si deve stare sempre più attenti a ciò che si pubblica sui canali social e a quali siti Web si consultano al lavoro. Un’azione sbagliata su Internet può avere un impatto irreversibile e a lungo termine anche su un eventuale avanzamento di carriera”. Nelle parole di Morten Lehn, General Manager Italy di Kaspersky Lab, vi sono dei chiari suggerimenti a come comportarsi nello svolgimento della propria professione, che trovano completezza nelle linee guida che seguono.
- Non postare nulla che possa essere considerato diffamatorio, osceno, privato o calunnioso. Nel dubbio, non postare
- Sapere che gli amministratori di sistema possono (almeno in teoria) essere informati delle abitudini di navigazione dei lavoratori
- Non molestare, minacciare, discriminare o screditare colleghi, partner, competitor o clienti. Né sui social né con messaggi, email o in qualunque altro modo
- Non postare fotografie di altri lavoratori, clienti, produttori, fornitori o prodotti aziendali senza aver avuto prima un permesso scritto