Francesco Sidoti, professore emerito presso l’Università dell’Aquila, ha tenuto una lezione dal titolo “Il Disagio Sociale Digitale”, durante il Master in Intelligence dell’Università della Calabria, diretto da Mario Caligiuri sottolineando che la realtà può essere interpretata in diversi modi, secondo il punto di vista di ogni persona. È possibile arrivare alle stesse conclusioni seguendo percorsi differenti o seguire lo stesso percorso e arrivare a conclusioni differenti.
Innanzitutto ha distinto investigazione e intelligence: una viene “dopo” e l’altra “prima”, una è ex ante e l’altra è ex post. L’investigazione nasce per spiegare chi, dove, quando, come, perché è responsabile di un fatto già avvenuto. L’intelligence dovrebbe anticipare i fatti e a volte interviene nella costruzione di uno scenario. L’una ricerca la verità, l’altra può crearla, tra le tante alternative possibili. Non bisogna confondere l’intelligence con l’investigazione.
Sidoti ha messo al centro della sua argomentazione due autori che a suo dire svettano rispetto a tutti gli altri: il generale John R. Allen e lo scienziato politico Gene Sharp, che svolgono argomentazioni separate e distinte, ma fondamentali per definire l’ambito specifico del disagio sociale digitale. Allen ha coniato e codificato, ancora nel 2020, l’idea di una “Iperguerra”, nella quale è protagonista l’ultima ondata scientifico-tecnologica, fondata sull’Intelligenza Artificiale, e i processi decisionali sono in larga misura influenzati da algoritmi, per la nostra umana impossibilità di controllare l’enorme quantità di informazioni. Il disagio sociale digitale è inquadrato in questo contesto epocale di una guerra che è in atto e che si svolge in parte nel cyberspazio. Come la guerra si caratterizza per l’estrema velocità e difficile controllabilità del contesto, così a maggior ragione i fenomeni sociali e il disagio sociale digitale, che -dice Sidoti- deve essere osservato alla luce delle indicazioni di Gene Sharp, massimo teorico della non-violenza come metodo per favorire i cambiamenti di regime, di governo, di sistema. Questa teoria è stata applicata nelle rivoluzioni di velluto e arancione, nei paesi dell’Est europeo e nelle primavere arabe, spesso in maniera esplicita e dichiarata. Le argomentazioni teoriche di John Allen e Gene Sharp sono state approfondite attraverso numerosi riferimenti alle impostazioni teoriche precedenti (da Alberoni a Giddens) e numerose esemplificazioni pratiche, dal caso Regeni in Egitto al Brasile di Bolsonaro (Sidoti ha ricordato che in questi due casi il disagio sociale è sorto spontaneamente, ma è stato incanalato). Il disagio sociale nella nostra epoca è enorme e si esprime sia nella forma individuale (è stata citata la rilevanza del contesto sociale nella marea crescente dei suicidi) sia nella forma collettiva. L’intelligence si confronta con il disagio sociale sotto forma di tentativi di guida dall’alto e di presenza dal basso, dentro contesti comunicativi diversi, con diverse caratteristiche tecnologiche. Ogni disagio sociale di rilevante dimensione attira l’attenzione dell’intelligence: sia all’interno sia all’esterno di un determinato ambito nazionale. Nella riflessione in proposito un caso da manuale è il 1917 e la Rivoluzione russa, nei rapporti con l’intelligence tedesca.
Inoltre, in via esemplificativa, Sidoti ha ricordato vari fenomeni storici nei quali il disagio sociale è stato caratterizzato da questi due fattori: l’ambiente tecnologico specifico e una guida dall’alto, dall’invenzione della scrittura in poi. La dismisura e il sovraccarico dell’informazione è una costante, già sofferta da Socrate e poi variamente reinterpretata e riproposta in innumerevoli contesti. Ad esempio, l’invenzione della stampa da parte di Johannes Gutenberg. “La stampa – ha continuato – ha reso possibile, ad esempio, la Riforma di Lutero. La Bibbia stampata per la prima volta in tedesco ha consentito a ciascun fedele la possibilità di leggere la Parola di Dio nella propria lingua, in autonomia e senza bisogno di intermediazione. La stampa è anche la protagonista della Rivoluzione Francese, con “L’Enciclopedie” e i libri scritti dagli illuministi. “Il disagio sociale – ha ricordato Sidoti- è sia movimento che conflitto. Bisogna considerare che la dimensione del sociale è spesso opaca non solo per i sociologi o per i politologi, ma anche per chi ha massime responsabilità istituzionali. Ha citato ampiamente una sua recente ricerca sulle case italiane, in particolare sui furti nelle abitazioni, come esemplificazione della possibilità che gravi fenomeni sociali possano essere sconosciuti, ignorati, minimizzati. Non dimentichiamo inoltre, ha sottolineato, che, all’incontrario, un disagio può essere socialmente costruito, creato, esacerbato, così come può essere alimentato l’odio sociale verso alcune categorie. L’odio si può esprimere in rivolte, in sommosse, in situazioni emergenziali. Mentre in epoche passate il disagio sociale culminava nelle piazze, ma si covava in tanti altri ambiti (ad esempio, nelle cucine dei paesi dell’Est, ha raccontato Svetlana Alexiévich), adesso l’ambito centrale è quello del cyberspace, mentre le piazze continuano ad essere importanti, ma come punto finale attraverso differenti percorsi. Ovviamente, il disagio sociale può essere incanalato all’interno della democrazia, quando la democrazia c’è, oppure può essere sollecitato per aiutare una democrazia che non c’è. In Cina, in Russia, in Turchia, nel Medio Oriente c’è molta riflessione e molta pratica su questi profili.
“Chi si occupa di intelligence – ha affermato in via conclusiva – deve capire che si tratta di salvare vite umane. Un esempio è la Seconda Guerra Mondiale e le figure luminose di Ann Caracristi e Alan Turing, una donna e un omosessuale. All’interno delle intelligence hanno operato ed operano intellettuali, scienziati, professionisti con formazioni, sensibilità e culture diverse, a dimostrazione che la diversità e le differenze rappresentano una indiscutibile ricchezza”. Forme di pensiero innovative sono preziose per individuare scenari alternativi della realtà, come quelli che deve appunto ipotizzare o costruire l’intelligence, nelle strutture formalmente costituite dal decisore politico (che detiene l’ultima parola).
Attraverso un lungo percorso storico, nel quale si separa dall’attività di spionaggio, l’intelligence – ha ribadito – è soprattutto capacità di affrontare la minaccia. “Non si può circoscrivere l’intelligence soltanto all’interesse nazionale, perché ci sono tanti interessi; ad esempio, gli interessi aziendali e gli interessi personali. L’intelligence aziendale non è l’intelligence nazionale. Quando si parla di un’intelligence nazionale si parla soltanto di un ambito specifico”.
“Oggi intelligence è necessaria sempre di più, perché viviamo in un mondo pieno di opportunità, dove la creatività è smisurata, ma appunto per questo occorre una maggiore capacità di individuare i problemi. Viviamo in un mondo di opportunità, dove però sono aumentati anche i rischi: questa dimensione della minaccia è specifica dell’intelligence. Per tale motivo di intelligence si devono occupare persone perbene con un’adeguata competenza nelle questioni del metodo e della morale”.
Nell’ultima parte della lezione, Sidoti ha parlato del fattore umano nell’intelligence (citando una riflessione pubblicata nel 2019 su Le Monde a proposito di 59 attacchi terroristici sventati) e ha concluso affermando che, trent’anni fa, chi si occupava di intelligence era considerato una persona da guardare con circospezione perché ritenuto connesso ai fenomeni peggiori della storia italiana, dalle stragi alle mafie. Invece, Sidoti ha sottolineato di aver conosciuto soltanto galantuomini nel mondo dell’intelligence, da Fulvio Martini a Carlo Mosca, da Franco Gabrielli a Luciano Carta. “Oggi sappiamo tutti che è necessario conoscere l’intelligence e che nel settore lavorano tanti galantuomini”.
Nota stampa direzione Master Intelligence, Università della Calabria.