Nove aziende su dieci dichiarano di aver coinvolto almeno un influencer nel proprio piano di comunicazione, privilegiando Instagram e a seguire Facebook e Youtube. Verità nota a molti (ma non a tutti) che emerge dall’Osservatorio Influencer Marketing realizzato a quattro mani da Ipsos e Flu, agenzia italiana specializzata in influencer marketing, che ha indagato per l’appunto su quali siano i principali sentori delle aziende a proposito del ruolo giocato dalle nuove personalità del mondo social nell’ambito dei piani di promozione e comunicazione.
Il ricorso agli influencer sta crescendo in maniera importante, al pari del numero di campagne di influencer marketing, ma perché i brand coinvolgono questi soggetti? Stando allo studio, la principale ragione che spinge le aziende a investire in questa direzione è la necessità di raggiungere il proprio target di riferimento, entrandovi in contatto diretto (è di questo avviso l’88% degli intervistati); poco meno importanti sono ritenute l’esigenza di fare brand awareness (voce ricorrente nell’85% dei casi) e il bisogno di migliorare il valore percepito della marca verso il target di riferimento (nel 76%).
La scelta e la valutazione dei “testimonial”. Oltre la metà degli influencer selezionati come “brand ambassador” per promuovere i servizi e i prodotti di un marchio non sono personaggi famosi ma persone specializzate in tematiche specifiche, e quindi note all’interno di community di riferimento rispetto alle quali godono di molta credibilità, tanto da essere spesso dei veri modelli per chi li segue. Le collaborazioni con gli influencer, nella maggior parte dei casi, non sono continuative ma temporanee: il 66% degli intervistati, si legge infatti nella nota che accompagna il rapporto, dichiara di attivare la collaborazione con uno o più professionisti solo in occasione di eventi o iniziative speciali mentre il restante 34% (erano solo il 10% fino allo scorso anno vi fa ricorso in modo continuativo, come parte integrante della strategia di comunicazione di lungo periodo.
Entrando maggiormente nel dettaglio, in quattro aziende su cinque le campagne di influencer marketing sono affidate sia a figure interne alle aziende che a realtà esterne esperte specializzate in questo ambito e solo un’azienda su cinque dichiara di realizzare tutto internamente. Per validare la bontà della scelta di un influencer rispetto ad un altro oggi ci si affida prevalentemente alle cosiddette “vanity metrics”, e cioè al livello di engagement che i contenuti condivisi e il profilo di un influencer sono in grado di generare (numero di like, numero di commenti, recensioni e altre interazioni). Oggetto di valutazione sono quindi i contatti (reach, true reach e il numero di visualizzazioni) e tutto ciò che rientra sotto la voce di “sentiment” generato (percezione di un post, brand associations, aggettivi dei tags…).
Cosa dicono gli esperti. “Contrariamente al testimonial, che diventa una parte all’interno della marca, nelle campagne di influencer marketing accade il contrario: la marca entra in un mondo che non è necessariamente o esclusivamente il proprio, dove ci possono essere sia conoscitori sia non conoscitori e anche rejector della marca stessa. E dove l’influencer ha un ruolo di endorser molto forte”. Claudia Ballerini, Head of Quantitative Business Unit di Ipsos, ha le idee molto chiare rispetto alle tendenze che stanno caratterizzando il rapporto delle aziende con le “celebrity” del mondo social. E inquadrando il fatto che “l’adesione non è alla marca ma alla marca attraverso l’influencer” invita calorosamente le aziende a “un ribaltamento della tradizionale modalità di promuovere il brand, perché si lascia la comfort zone della comunicazione classica e si entra in un mondo che può essere imprevedibile”.
Attenzione alla reputation. Un’altra recente indagine a firma di Trustpilot, una delle più seguite piattaforme di recensioni a livello internazionale, ci conferma invece come anche una piccola gaffe da parte di un marchio possa portare i clienti di quest’ultimo ad allontanarsi e a non considerarne più i prodotti o i servizi. La reputazione conta eccome e lo conferma il fatto che il 90% dei consumatori sceglie di non acquistare da un’azienda con una cattiva fama online. La ragione principale che causa la diminuzione della fiducia dei clienti è, curiosamente se vogliamo, la cancellazione da parte delle aziende delle recensioni negative (voce citata nel 95% dei casi), il che suggerisce una forte avversione degli utenti nei confronti di comportamenti disonesti.
I brand, insomma, possono perdere velocemente la fiducia in loro riposta quando non sono attivi o mostrano di non avere una presenza sui canali digitali moderna e dinamica. Ciò che chiedono e pretendono i consumatori, nel dettaglio, è la possibilità di cercare e di trovare online informazioni aggiornate sul brand, con un approccio ai feedback aperto e trasparente, perché diffidano delle aziende con siti web obsoleti e non sicuri e che non sono mai state recensite dagli utenti. La reputazione online, questo l’assunto dello studio, è quindi il principale generatore di fiducia per un marchio e lo sforzo da compiere va di conseguenza nella direzione di farsi conoscere e di farlo in modo trasparente. Con o senza influencer di professione.