Dobbiamo superare quella cultura tutta italiana basata su una radicata tradizione per cui è fondamentale il titolo di studio, prima di tutto. Non sono importanti le reali abilità sviluppate, il sapere acquisito, le competenze possedute, sia soft che hard, ma il “pezzo di carta”. Tutto il sistema scolastico e accademico è basato sul titolo. Sulla competenza formale.
La cultura del titolo per trovare lavoro. Ti propinano la necessità di acquisire un titolo e questa è la condizione necessaria per trovare un’occupazione a livelli qualificati. La cultura del titolo è decisiva nel settore pubblico dove è la condizione necessaria per accedere ad un concorso, essere assunti e procedere nella carriera. In questo contesto più titoli si posseggono e maggiori sono le possibilità di avanzare nelle posizioni di responsabilità. Ma siamo sicuri che le competenze certificate dai titoli siano poi realmente padroneggiate? E’ lecito dubitarne. Nel settore privato, per contro, l’attenzione si sposta soprattutto sulle reali abilità delle persone e meno sui titoli. Non a caso in una ricerca di qualche anno fa dell’Aidp, l’associazione per la direzione del personale, oltre il 90 per cento dei direttori del personale ha dichiarato che nella valutazione delle candidature il titolo di studio non è il requisito di fondo su cui decidono l’assunzione di una persona. Le aziende private, in cui il tema della competitività è dirimente, hanno bisogno di abilità e non di titoli. Di competenze reali e non solo formali. In realtà tutto il modo del lavoro ha bisogno di abilità reali.
Per meglio intenderci facciamo un esempio pratico. Le aziende che competono all’estero, nella ricerca e selezione di candidati chiederanno come pre-requisito la conoscenza dell’inglese. Già qui attenzione al termine della conoscenza dell’inglese. In realtà non si richiede la conoscenza dell’inglese ma il saper parlare l’inglese. L’abilità linguistica. Sono due concetti diversi. Se io conosco l’inglese non necessariamente lo so parlare. E’ la differenza tra conoscenza e abilità. Per conoscenza di una lingua, per esempio, si può intendere anche conoscere tutte le parole del vocabolario di una determinata lingua a memoria oppure conoscere tutte le regole grammaticali, ma questo tuttavia, non implica automaticamente che queste parole le sappiamo mettere insieme in tempo reale, e quindi l’abilità di saper parlare una lingua. Alla fine abbiamo confuso la parte viva di una lingua con la parte morta. La lingua parlata con le regole. In altre parole l’abilità con la conoscenza. Se studio le regole non necessariamente acquisisco l’abilità per parlare in inglese. Il paradigma andremmo rovesciato. Dovremmo partire nell’insegnamento prima dalla base parlata. Se parlo bene l’inglese perché ho fatto un anno il cameriere a Londra vuol dire che possiedo questa abilità ma non il titolo che la certifica.
Tra abilità e conoscenze: cos’è più importante? In altre parole dovremmo dare molto più valore alle competenze e alle abilità informali e uscire dal in recinto di una diffusa sottocultura del “pezzo di carta” che a ben vedere appesantisce la prospettiva di una crescita del nostro Paese. L’insegnamento deve evolvere da una schema radicato di trasmissione dei saperi e delle competenze formali verso un modello di insegnamento delle abilità reali.