Nel mondo sono nove su dieci le aziende già impegnate nel ridisegnare i lavori all’interno delle proprie strutture, in Italia il rapporto scende a una su due. Un dato forse non sorprendente e che apre logicamente il varco a diverse riflessioni critiche in merito agli impatti della tecnologia sul lavoro. L’analisi di Drew Keith, Human Capital Leader di Deloitte, raccolta dal Sole24ore, accende quindi la luce su un tema ampiamente dibattuto – quello degli effetti provocati dall’automazione digitale sulle attività a basso valore aggiunto e sulla necessità di riconvertire una parte di queste a un livello più alto – e proietta ulteriori ombre sulla capacità di innovare delle nostre imprese. Lo smart working è solo uno dei fenomeni che ci vede ancora in ritardo. Meno di un responsabile delle risorse umane sue due (il 46% per la precisione), dichiara infatti di essere pronto ad intraprendere o di aver già intrapreso iniziative concrete in tema di lavoro flessibile, nonostante sia risaputo ormai che mirate strategie di benessere aziendale comportino effetti positivi diretti su performance e produttività.
La formazione snobba i talenti? Può bastare la rigidità organizzativa di molte società (grandi e non solo) della Penisola a spiegare il gap? Probabilmente no, e proviamo a spiegare perché. Dall’indagine che Deloitte ha condotto a livello mondiale su un campione di 10mila manager, di cui il 63% appartenenti alla funzione Hr, emerge per esempio che fra le priorità dichiarate vi siano i progetti di formazione. Le aziende si stanno concentrando sulla riqualificazione del personale (una su due, come detto, nel caso dell’Italia) e a seguire stanno investendo sullo sviluppo della leadership, la mobilità dei talenti, la tecnologia a supporto delle risorse umane e, buon ultima nel caso delle organizzazioni nostrane, l’esperienza dei lavoratori (che invece è la priorità numero due su scala globale).
Se nell’agenda dei responsabili delle risorse umane, l’aggiornamento costante delle competenze e dell’esperienze occupa la prima posizione nel percorso di costruzione e sviluppo futuro delle carriere (il 56% dichiara di essere pronto ad intraprendere azioni in questa direzione), dallo studio emerge anche una distonia nel rapporto tra la ricerca di nuovi talenti da attrarre nell’organizzazione e i progetti di formazione indirizzati al personale interno esistente. Solo il 25% degli intervistati, infatti, ritiene che l’attenzione sia focalizzata verso nuove figure da inserire nel proprio contesto aziendale.
Lo sviluppo della leadership e la mobilità interna. Un’altra evidente disparità fra buone intenzioni e azioni concrete riguarda lo sviluppo della leadership. Oltre l’85% dei responsabili Hr considera infatti prioritario questa attività ma solamente il 43% ha intrapreso iniziative in questa direzione. Le difficoltà di mettere in campo nello stesso momento, da parte dei leader della C-suite (Chief executive officer e via dicendo), competenze e capacità in fatto di vision, connettività e collaborazione inter-funzionale mettono di conseguenza a rischio l’esigenza di gestire le ambiguità e le macro tendenze dell’ambiente esterno. Per contro, come confermano da Deloitte, incrementare le attitudini al comando è ritenuta particolarmente importante.
Le discrepanze rilevate dallo studio non sono però finite. Anche il tema della mobilità interna, e quindi spostamenti di ruolo all’interno della stessa organizzazione, da un’unità organizzativa ad un’altra, per svolgere attività diverse, riflette atteggiamenti non coerenti fra intenzione e azione. Se l’83% dei manager ritiene che tale tema sia importante, solo il 53% ha messo in campo attività concrete su questo fronte. Eppure, come hanno sottolineato gli esperti, avviare programmi di cambiamento può generare effetti positivi sia in termini di engagement dei dipendenti che di risultati di business.