L’interruzione della didattica in presenza a causa della pandemia da Covid-19 incarna una situazione senza precedenti nel nostro paese. Oggi ci si interroga sui possibili scenari, quando l’anno scolastico e l’anno accademico dovranno ripartire a settembre. Dall’inizio della pandemia ad oggi il dibattito sulla scuola e sull’università è stato incentrato su aspetti puramente logistici: il “luogo” dell’apprendimento sarà l’aula fisica o l’aula virtuale? Oppure un mix delle due? Come garantire le distanze di sicurezza? Come ottimizzare gli spazi? La lezione a distanza è altrettanto efficace? Quali sono le zone coperte dalla banda larga?
In realtà non è stato colto il vero problema, che non è logistico, ma emozionale. E quindi metodologico.La scuola di oggi non coinvolge e quindi vanno al più presto rivisti i metodi ed i contenuti della didattica. Andrebbero anche ridefiniti con precisione gli obiettivi. Se l’obiettivo della formazione deve essere l’apprendimento, allora è sbagliata sia l’attuale impostazione della didattica in presenza, sia di quella a distanza. E sono sbagliate per lo stesso motivo: sono entrambe basate sulla lezione frontale, icona del metodo “deduttivo”, che è desueto, nozionistico e pretenzioso. Questa interruzione è un’occasione unica per rivedere le metodologie di apprendimento, con l’obiettivo di rendere in generale la didattica più efficace, meno noiosa, e, soprattutto, più in linea con le nuove esigenze espresse da un mercato del lavoro in rapida evoluzione, con il quale i ragazzi di tutte le età dovranno fare i conti in un futuro più o meno ravvicinato.
Dobbiamo finalmente constatare l’inadeguatezza della lezione frontale. Negli ultimi anni i risultati degli studi neuroscientifici, in particolare di quelli applicati alla didattica, hanno ampiamente ed impietosamente evidenziato la scarsa efficacia della lezione frontale in termini di apprendimento concreto. Gli aspetti sui quali si fondano questi risultati sono molteplici ed assai semplici da comprendere.
Si pensi ad esempio alla curva dell’attenzione: quando il docente espone, il cervello dell’allievo è in grado di mantenere alta l’attenzione per 10-15 minuti; poi la concentrazione cala inesorabilmente, fino a quando, dopo circa 30 minuti, l’erosione attentiva non si trasforma in smarrimento. Questo vuol dire che, se va bene, siamo in grado di “portare a casa” solo una minima parte dei contenuti che ci vengono trasmessi, verbalmente, nel corso di una lezione frontale.
Il secondo neuro-problema è legato alla nostra capacità di “salvare” in memoria i contenuti appresi: il processo di memorizzazione, sia a breve termine sia a lungo termine, si ottiene – attraverso il rilascio di serotonina – con la ripetizione dei contenuti o dei concetti. Questo spiega perché spesso, dopo anni dal completamento degli studi, siamo in grado di ricordare alcune poesie imparate a memoria alle scuole elementari, ma non un qualsiasi paragrafo di uno dei libri di testo che abbiamo utilizzato a scuola oppure all’università.
Altro tema che incide sull’attenzione e quindi sull’efficacia dell’apprendimento, è quello legato alla partecipazione emotiva del discente. Purtroppo, molto spesso la lezione frontale in aula risulta poco coinvolgente. Ciò dipende in alcuni casi dalla tematica trattata, perché percepita dall’allievo poco utile in termini di applicabilità pratica anche futura. In altri casi la “colpa” è del docente che, facendo uno scarso ricorso all’interazione con i discenti, riduce di fatto la trasmissione orale ad uno sterile monologo. Una lezione poco interessante è noiosa; una lezione noiosa viene dimenticata in fretta, perché non favorisce l’ancoraggio cognitivo necessario per l’apprendimento. Insomma, noi tendiamo a ricordare ciò che ci dà emozioni.
Perché ci ostiniamo, allora, con la lezione frontale? Per tradizione. Leggi qui.