Parlare del concetto di felicità non è facile. E’ un tema spinoso e al contempo vitale. Dalle mille implicazioni, riflessioni, visioni, forse pregiudizi, disquisizioni. Un’intima aspirazione umana a cui più o meno tutti tendiamo, bramiamo, sacrifichiamo. In tutti gli ambiti vitali dell’esistenza. Qui, però, ci soffermiamo un po’ di più sul rapporto tra felicità e lavoro che, addirittura, per qualcuno è un ossimoro. E’ possibile promuovere una sorta di osmosi feconda tra felicità e lavoro? Ne parliamo in questa intervista con Sandro Formica, professore presso la Florida International University, a Miami (U.S.A.) e titolare di cattedra in Potere Personale e la Scienza della Felicità. Insegna periodicamente alla SDA e al Master dell’Università Bocconi. I risultati dei suoi studi sono stati presentati in cinque continenti, presso conferenze quali il Congresso Mondiale del Business, la Conferenza Internazionale dell’Associazione sulla Ricerca, Viaggi e Turismo e la Conferenza Mondiale sulla Qualità della Vita.
Professor Formica, il tema della felicità è molto complesso e soprattutto relativo. E’ una bella e suggestiva sfida voler portare questo aspetto fondamentale della vita di ciascuno nell’ambito delle organizzazioni. Non le chiedo cos’è la felicità, ma cos’è la scienza della felicità?
La scienza non è altro che l’osservazione di fatti, esperienze, eventi che vengono codificati in teoria e applicati in pratica. La scienza della felicità, quindi, è data dall’osservazione di fatti, esperienze ed eventi che sono positivamente o negativamente associati allo stato di benessere che chiamiamo “felicità”. Ad esempio, quando pratichiamo la gratitudine, sia espressamente che tacitamente, la felicità aumenta, mentre quando ci concentriamo sulla mancanza di ciò che desideriamo, diminuisce. In una ricerca effettuata su 411 persone dal padre della psicologia positiva, Martin Seligman, è stato chiesto di scrivere e consegnare una lettera di gratitudine ad una persona cara. Questa semplice azione ha fatto aumentare il livello di felicità da un punteggio di 59 a 65. L’effetto benefico ha continuato a farsi sentire per oltre un mese. Non solo, anche i sintomi depressivi hanno registrato una diminuzione statisticamente significativa rispetto ai sintomi precedenti al trattamento e rispetto a quelli accusati dal gruppo di controllo. Contrariamente a quanto potremmo pensare, pubblicazioni scientifiche che hanno come oggetto di ricerca la felicità al lavoro risalgono al 1930; quindi possiamo affermare con certezza che questa scienza è ben consolidata in quanto esiste da oltre novant’anni.
Si può insegnare la felicità? Lei equipara metaforicamente la felicità ad un “muscolo”. Cosa intende?
Sono sicuro che anche lei avrà avuto la fortuna di conoscere persone che, da quando sono nate, sembrano avere un’attitudine positiva nei confronti della vita. Si lasciano scivolar via situazioni spiacevoli e si concentrano ed enfatizzano esperienze favorevoli. Notano con facilità l’aspetto positivo di quello che gli accade e si concentrano naturalmente sulla soluzione evitando di soffermarsi sul problema. La psicologa Sonja Lyubomirsky, che da decenni ricerca le cause della felicità, nel citare numerosissimi studi scientifici di settore, suggerisce che la felicità dipende da fattori genetici nel 50%dei casi, mentre il 10% dipende da cause esterne, al di fuori del nostro controllo. Il restante 40%, tuttavia, ha a che fare con i nostri pensieri, parole, emozioni, decisioni e comportamento. La felicità quindi diventa una responsabilità personale e non solo. Infatti, essere felici influenza positivamente sia lo stato di benessere che la performance del team con il quale si lavora. Infatti, la Gallup ha evidenziato che i manager che si concentrano sui punti di forza dei propri dipendenti raggiungono il 67% di engagement. Al contrario, i manager che si comunicano enfatizzando i punti deboli dei loro subordinati, raccolgono un engagement del 31%. I teams che vengono considerati ad “alta produttività” condividono feedback positivo sei volte di più rispetto alla media. I teams a “bassa produttività” generano il doppio del feedback negativo rispetto alla media. Allenare la felicità porta quindi dei benefici e risultati non solo personali ma anche sociali.
Il suo obiettivo è quello di insegnare alle persone a trasformare il lavoro in vocazione. Il percorso non dovrebbe essere al contrario?
Si, dovrebbe esserlo, ma non è così. Mi spiego. È probabile che durante la nostra infanzia abbiamo dedicato più tempo a coltivare i nostri talenti, a dare spazio a quello che ci piaceva e che ci riusciva più facilmente. Poi siamo cresciuti e ci è stato consigliato di lasciar fare i nostri talenti (specialmente quei talenti che non avrebbero garantito un reddito) e di impegnarci ad acquisire le competenze “giuste”, quelle richieste dalla società e dal mercato; indispensabili per trovare un lavoro sicuro. Abbiamo messo da parte i nostri doni naturali e abbandonato una parte importante del nostro essere per seguire un percorso lavorativo e di vita che probabilmente non ci apparteneva. Personalmente, ho accantonato i miei talenti da bambino al punto tale da convincermi di non averne affatto. Ho studiato ragioneria e poi completato i miei studi universitari presso la facoltà di giurisprudenza. Tuttavia, ne le competenze da commercialista, ne quelle da avvocato erano in allineamento o tantomeno compatibili con i talenti che ho riscoperto durante i miei trent’anni. Il risultato? Dopo aver studiato decine di migliaia di ore per acquisire competenze che non erano allineate a chi ero e a chi sono veramente, mi sono ritrovato a ripartire da zero, insoddisfatto e frustrato. La mia vocazione e il mio lavoro erano lontani e separati da un oceano. Dopo aver condiviso la mia storia con decine di migliaia di persone, le posso garantire che la mia esperienza è piuttosto diffusa. Molti di noi hanno scelto la strada percepita come “più sicura” a discapito della nostra vocazione. Non è un segreto che la maggior parte degli italiani non è soddisfatta al lavoro. Infatti, mi sento ripetere che il concetto di felicità al lavoro è un ossimoro, come se fosse più naturale o logico associare il lavoro alla sofferenza. Visto che ho mancato l’opportunità di trasformare la mia vocazione in lavoro, ho deciso di fare l’opposto, cioè trasformare il lavoro in vocazione. Come? Per esempio, cambiando le mie materie d’insegnamento. Creando dei corsi universitari che non esistevano prima, come “Potere Personale”, “Gestisci te Stesso, Gestisci gli Altri”, “Organizzazioni Positive” ed “Economia della Felicità”. Istituendo l’Happiness Design Lab, un laboratorio il cui obiettivo è quello di diffondere e misurare la felicità. Offrendo la certificazione di Chief Happiness Officer o manager della felicità, in collaborazione con il Summit Mondiale sulla Felicità—WOHASU—e la Florida International University.
L’Italia sembra meno avvezza al tema rispetto ad una pratica molto diffusa in altri paesi, penso agli Stati Uniti dove lei vive e insegna. Perché questa differenza? C’è una tara culturale?
La felicità dei paesi viene misurata dal rapporto mondiale della felicità, un’iniziativa a cura delle Nazioni Unite. Questo documento, disponibile online (basta cercarlo digitando WHR20), riporta i parametri della felicità di 153 nazioni utilizzando una serie di parametri, tra i quali il prodotto interno lordo pro capite, il supporto sociale, l’aspettativa di vita in buona salute, la liberta di scelta, generosità e percezione del livello di corruzione. Tra gli sponsor più importanti di questo documento, c’è una forte rappresentanza italiana, con Illy Caffè e Davines. Nell’analizzare il rapporto mondiale sulla felicità del 2020,la ragione per cui i paesi scandinavi sono al primo posto è data dall’alta qualità e la cura del bene comune e delle infrastrutture, l’impegno individuale e il coinvolgimento nelle istituzioni politiche e sociali, sia locali che nazionali. Ciò fa crescere il livello di felicità e riduce il livello di ineguaglianza. In altre parole la Finlandia, Danimarca, Svezia e Norvegia hanno: poca diseguaglianza; un forte ed efficiente welfare state; un’alta qualità democratica misurata in termini di partecipazione popolare a selezionare il governo, stabilità politica, libertà di associazione e di espressione, mancanza di corruzione ed efficacia/efficienza delle istituzioni politiche; una forbice minima dei redditi; un’alta autonomia e individualismo fiducia negli altri e coesione sociale.L’Italia si trova attualmente al trentesimo posto nella classifica mondiale, dietro a quasi tutti gli stati europei, oltre che al Guatemala, Arabia Saudita, Costa Rica, Uruguay e Messico. I tre indicatori che penalizzano maggiormente il nostro paese sono: l’alto livello di corruzione, la percezione di una mancanza di libertà di scelta, e la scarsa generosità. Dove brilliamo, invece è il supporto sociale, e cioè l’aiuto che diamo e riceviamo dalla famiglia e dagli amici. A prescindere dagli indicatori utilizzati dall’ONU nel redigere il rapporto mondiale sulla felicità, gli Stati Uniti, che si trovano al diciottesimo posto della graduatoria mondiale, credo abbiano un vantaggio competitivo rispetto all’Italia in quanto più ottimisti e fiduciosi nel domani. Il fatto stesso che la felicità sia comunque menzionata come un diritto del cittadino insieme alla vita e alla libertà la dice lunga sul rapporto che esiste tra questo paese e il benessere personale.
Sul suo sito campeggia questa frase: “Ancora prima di mostrare le proprie capacità a fare cosa e come, è indispensabile sapere (e far sapere) il perché lo fai”. Ce la spiega?
Una delle colonne portanti della Scienza del Sé, la scienza che si concentra sugli aspetti fondamentali dell’auto-consapevolezza e della felicità, è il proposito di vita. Coloro che hanno un chiaro proposito e lo perseguono, vivono più a lungo, si ammalano di meno soprattutto di malattie cognitive come l’Alzheimer, hanno relazioni sociali più soddisfacenti, guadagnano di più e sono più felici. È proprio il proposito di vita che risponde alla domanda: “perché lo fai?” ed è rappresentato dal nostro impegno e dedizione a un qualcosa che è più grande di noi stessi.Il proposito ed i suoi benefici non riguardano solo gli individui ma anche le organizzazioni ed il mondo dell’impresa. Le ricerche mondiali, condotte da Harvard e Ernst & Young su una popolazione di oltre 400 dirigenti delle maggiori aziende quotate in borsa hanno evidenziato in modo consistente ed univoco l’importanza di mettere al centro della propria strategia il “proposito” dell’organizzazione. Questi dati mostrano che le aziende che hanno un proposito condiviso e lo hanno integrato nei processi organizzativi hanno dipendenti 1,7 volte più soddisfatti e “engaged” ed una maggiore capacità di attrarre e trattenere talenti, oltre l’80% di clienti in più e con un elevato livello di fedeltà ed infine un valore economico di borsa di gran lunga superiore a quello delle aziende che non hanno un chiaro proposito, non lo perseguono o non lo “esprimono” concretamente all’interno di un’organizzazione.
Siamo in un periodo condizionato dalla negatività dell’emergenza pandemica acuita da una comunicazione che fa da megafono a inevitabili sentimenti negativi. Il “bisogno” di felicità è più attuale che mai. Che fare?
Allenarci ad essere auto-consapevoli. Rafforzare il nostro “ambiente interiore” per filtrare il bombardamento di negatività che viene da fuori. Spesso ci dimentichiamo che non è ciò che succede che ci influenza. L’ostacolo alla nostra felicità non è rappresentato da quello che avviene fuori. In realtà la mancanza di felicità è causata dalle nostre percezioni, dai filtri che spesso inconsapevolmente utilizziamo per interpretare gli avvenimenti esterni. Ancora una volta, come abbiamo condiviso all’inizio di questa intervista, quando parlavamo di “allenare” la felicità, al comando dei nostri pensieri ed emozioni ci siamo noi stessi e la nostra interpretazione di quello che succede fuori, inevitabilmente influenzerà il nostro stato di salute emotiva. Quando accresciamo il nostro stato di auto-consapevolezza, riprendiamo gradualmente il controllo della nostra vita. Si tratta di una conquista che avviene minuto per minuto e, fondamentalmente, consiste nello scegliere se vogliamo sentirci vittime della comunicazione che riceviamo o protagonisti dello stato di benessere che vogliamo creare per noi e per gli altri. Ancora una volta interviene la scienza a dirci che quando ci sentiamo vittime di persone, eventi o forze esterne entriamo in uno stato mentale di sopravvivenza, che diminuisce la nostra intelligenza, produttività, empatia e felicità.
Professore, lei è kenyote speaker al World Happiness Summit 2020. Cos’è questa organizzazione e cosa si prefigge?
Il World happiness Summit è una fondazione il cui obiettivo primario è quello di costruire un ponte tra la scienza e l’esperienzialità. Lo sta facendo attraverso tre percorsi: il summit, l’appuntamento mondiale più importante sulla felicità, che si tiene ogni anno nel mese di marzo; l’H-20, che è un evento a porte chiuse al quale partecipano i rappresentanti di venti stati interessati a sviluppare e integrare politiche di felicità e attraverso una comunità online i cui membri si impegnano a vivere e condividere conoscenze e pratiche di felicità. Sebbene al summit intervengano ogni anno i più alti esponenti del mondo accademico-scientifico di settore, l’evento è concepito, sviluppato e vissuto come altamente esperienziale. Vede, se leggiamo un libro sulla felicità o la studiamo, ci limitiamo ad aumentare la propria conoscenza a livello intellettuale. Ne sapremo di più su questo argomento ma il nostro stato di benessere interiore non cambierà. La felicità va sentita e vissuta e per far ciò, dobbiamo metterci in gioco e praticarla.
E’ felice?
Il mio parametro di misurazione della felicità è basato sul progresso che ho fatto negli anni. Sono più felice ora di un anno fa e un anno fa ero più felice di cinque anni fa. Il perseguire il mio proposito, quello di “portare la felicità attraverso l’auto-consapevolezza nelle organizzazioni, governi e scuole”, alimenta costantemente la mia felicità. Le ricordo che la felicità è il risultato di un mix di tre ingredienti: uno stato di benessere emotivo, un continuo impegno a coltivarlo e uno scopo per il quale vale la pena vivere. Si immagina l’impatto sullo sviluppo e il benessere di un’azienda “made in Italy” di procedure e processi basati sulla scienza della felicità?
2 commenti
[…] Si può allenare la felicità? E’ una delle domande-chiave nell’ambito del mindset, e Filippo Di Nardo, direttore di Kongnews, l’ha rivolta al professor Sandro Formica, accademico di Scienza della Felicità alla Florida International University negli Stati Uniti, in una lunga e interessante intervista che consigliamo di leggere. […]
Articolo molto interessante !
Consapevolezza, gratitudine, felicità sono parole chiave che dobbiamo tenere a mente