Promuovere l’inclusione di genere e di abilità, di provenienza e di orientamento sessuale o religioso, perseguendo la valorizzazione delle differenze, può rappresentare un grosso vantaggio per l’organizzazione. Quale? La possibilità di trasformare un potenziale elemento di instabilità in impatti positivi sui risultati di business. Lo dice uno studio di Cornerstone OnDemand e Idc (Future Culture – Costruire una cultura di innovazione nell’era della trasformazione digitale), che conferma come le aziende italiane siano sempre più consapevoli di questo potenziale beneficio e come la diversità sia considerata uno dei criteri chiave nella selezione del personale. Secondo la ricerca, più nel dettaglio, le nostre imprese attribuiscono maggiore priorità a questo “asset” rispetto a quelle di altri Paesi europei quando assumono nuovi dipendenti e nel 29% dei casi la diversità è vista come un elemento importante della cultura aziendale, contro una media generale del 25%.
Il compito dei manager. Le aziende percepite come inclusive, inoltre, registrano un aumento dei ricavi nell’ordine del 17% e ben l’80% degli italiani preferisce i marchi più inclusivi rispetto a etnia, orientamento sessuale, età, genere e abilità fisiche. Sebbene varie aziende di alto profilo vantino però al proprio interno figure specializzate addette alla diversità (con il compito di esaminare in modo approfondito le modalità di assunzione e accoglienza dei nuovi collaboratori), resta ancora molto da fare. Lo ha sottolineato in modo esplicito Alexandra Anders, Talent Director di Cornerstone OnDemand a livello Emea, secondo cui “i manager devono incoraggiare la diversità nello stesso modo in cui promuovono se stessi e il business, non solo con attività di marketing e pubbliche relazioni, ma anche attraverso gli annunci di lavoro che pubblicano, facendo attenzione al messaggio contenuto negli stessi per capire se il linguaggio utilizzato mostri efficacemente le reali opportunità di un’atmosfera inclusiva”.
Cambiare il modo di attrarre e assumere dipendenti con competenze diverse, secondo l’esperta, è solo il primo passo. “C’è ancora molto lavoro da fare con i responsabili della formazione, abituati per anni a lavorare in un ambiente prevalentemente maschile – ha aggiunto -, e dal punto di vista dei leader è fondamentale essere molto chiari su che tipo di azienda si vuole essere, stabilendo regole che chiariscano molto bene cosa significa appartenere a quella determinata azienda”
Aziende socialmente responsabili cercasi. L’aumento di consapevolezza sull’importanza di diversità e inclusione nei luoghi di lavoro è confermata anche da un’altra recente ricerca condotta da Lenovo su scala internazionale (Cina, Stati Uniti, Regno Unito, Germania e Brasile i Paesi coinvolti), secondo cui la tecnologia rappresenta oggi un fattore positivo nella diffusione e comprensione di queste tematiche, considerate dalla maggioranza del campione intervistato come un’opportunità per costruire una comunità (dentro e fuori l’organizzazione) e non più un risultato da ottenere. Sintomatico, in proposito, il commento rilasciato da Yolanda Conyers, Chief Diversity Officer di Lenovo, azienda che si è impegnata a conseguire l’obiettivo di avere almeno il 20% di donne nel proprio top management a livello globale entro il 2020. “Diversità e inclusione – ha detto la manager – consentono di fare nostre le idee migliori e più innovative, oltre a consentirci di comprendere meglio le esigenze dei nostri clienti”.
Danimarca esempio da seguire. Sul tema della diversità e dell’inclusione si è espresso anche anche l’ultimo rapporto Randstad Workmonitor, da cui si evince la “classica” dicotomia italiana. Siamo infatti primi in Europa quanto a desiderio di lavorare solamente in un’azienda con un solido programma di responsabilità sociale (lo afferma l’87% degli addetti tricolori, rispetto al 79% degli inglesi e al 78% dei francesi) e oltre la metà dei circa 400 italiani di età compresa fra 18 e 67 anni oggetto di indagine (il 57% per la precisione) ritiene importante, quando cerca occupazione, che un’impresa partecipi a iniziative filantropiche. Ma solo il 50% delle nostre organizzazioni valorizza diversità e inclusione e soltanto la Francia si mostra più in ritardo del nostro Paese in fatto di attenzione e sensibilità all’inclusione fra i lavoratori e le aziende.
Cosa comporta questa scarsa sensibilità al tema? Secondo gli esperti di Randstad, le imprese italiane dovrebbero investire maggiormente in progetti e programmi di corporate social responsability per aumentare la loro capacità di attrarre (e trattenere) i migliori talenti disponibili sul mercato. L’esempio da seguire? La Danimarca. Nel paese scandinavo, infatti, il 48% delle organizzazioni offre permessi retribuiti ai propri dipendenti per attività di volontariato scelte dagli stessi addetti ed il 43% li garantisce per attività selezionate dall’azienda.