Quante volte abbiamo pronunciato o sentito pronunciare la classica frase “il lavoro mi sta stressando” Oggi quella affermazione che poteva apparire anche generica e colloquiale assume un significato diverso. L’undicesima revisione dell’International Classification of Diseases (ICD-11), ripresa dalla Organizzazione Mondiale per la Sanità, inserisce il Burn-out come una sindrome derivante da uno stress cronico sul lavoro che non è stato ben gestito e che è caratterizzato da tre dimensioni : un sentimento di mancanza di energia o esaurimento delle forze; l’aumento della presa di distanza dal lavoro, associato a percezione di negativismo o cinismo relativo al proprio lavoro; una riduzione della propria efficacia lavorativa. L’ICD-11 specifica che il burnout è da riferirsi solo al contesto lavorativo e non va confuso con altri fenomeni come l’adattamento, l’ansietà o fenomeni connessi all’umore o allo stress, che derivino da altre esperienze di vita o traumatiche.
La notizia è importante per la sua portata di visibilità del fenomeno, ma non nuova per gli specialisti. La valutazione delle reazioni soggettive, cognitive ed emotive, che ogni persona da alla sua esperienza lavorativa hanno da sempre caratterizzato gli orientamenti per individuare il burnout, inizialmente applicato per lo più a professioni di aiuto alla persona e di relazione. Già agli inizi del secolo Novecento si parlava di rischio di “esaurimento” per i medici di psichiatria e poi negli anni ’70 si iniziò a considerare il burnout come fenomeno che colpiva specificatamente professioni come quelle sociosanitarie, gli insegnanti o gli psicologi. Ricerche successive hanno poi allargato il campo ad una condizione più generale, che si manifesta quando ci si rende conto di non possedere più le risorse adatte ad affrontare le richieste lavorative del mondo esterno. Il burnout è dunque collegato ai rischi psicosociali e in specifico allo stress in ambito lavorativo, quali la tipologia intrinseca dell’organizzazione del lavoro, i suoi contenuti, la gestione del ruolo, le responsabilità collegate, la tipologia di “utenti” e le relazioni interpersonali.
Diverse scuole di pensiero fanno risalire la genesi della sindrome del burnout a fattori sia individuali che organizzativi, ma generalmente concordano come vi sia un forte legame con l’organizzazione del lavoro e le sue richieste. La definizione che da l’ICD11 sembra quella più vicina agli studi degli anni ’80 e ’90 di Maslach e Leiter che classificano il burnout come una risposta allo stress cronico da lavoro, caratterizzato da esaurimento emotivo, depersonalizzazione e ridotta efficacia e realizzazione professionale. Il passaggio da esaurimento a cinismo emerge come dinamica che sembra caratterizzare il burnout come reazione ad un eccessivo carico di lavoro e scarso supporto emotivo del contesto. Diversi studi più recenti hanno indagato l’impatto dei rischi psicosociali sul lavoro. L’ Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro – EU-OSHA riporta come la Commissione europea (2002) ha calcolato che nel 2002 il costo annuo dello stress lavoro-correlato nell’UE a 15 ammontava a 20 miliardi di EUR.
Secondo un’altra indagine condotta in 12 Paesi dall’European General Practice Research Network, i medici italiani hanno un livello di stress quasi doppio (il 43%) rispetto alla media dei colleghi europei (22%). Infine una recente indagine Gallup, pubblicata nel 2018, su circa 7.500 impiegati, ha trovato che il 23% di loro percepisce molto spesso di sintomi di burnout al lavoro e il 44% qualche volta. Nello studio cinque fattori erano collegati al burnout: la percezione di essere trattati in modo ingiusto e scorretto; avere un carico di lavoro poco gestibile; poca chiarezza di ruolo; mancanza di comunicazione e supporto dai manager; forte pressione sui tempi di realizzazione del lavoro.
In realtà gli strumenti per prevenire e gestire il rischio da burnout e i rischi psicosociali in genarale esistono già. Il D. lgs. 81/08 del 9 aprile 2008 rende esplicito l’obbligo di valutare tutti i rischi “tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato, secondo i contenuti dell’accordo europeo dell’8 ottobre 2004”. Per verificare la ricorrenza di queste patologie e di questi comportamenti nella popolazione dei lavoratori occorre recuperare informazioni da più figure professionali (Medico del Lavoro, RSPP, Responsabile del Personale, Dirigenti di Unità lavorative, lavoratori stessi) e seguire un protocollo preciso, che comprende raccolta di dati quantitativi e qualitativi. I dati raccolti vanno elaborati, correlati e incrociati, in modo da darne un significato che consenta di generare indizi sui rischi riferiti allo stress correlato al lavoro. Queste metodologie, insieme all’esperienza dei professionisti coinvolti, sono in grado di dare indicazioni accurate sia in ambienti produttivi di taglio tradizionale che in contesti di servizio (banche, assicurazioni, servizi pubblici) che di new economy (terziario avanzato). Spesso però, purtroppo, queste valutazioni, seppure obbligatorie, sono effettuate in modo approssimativo, burocratico, da personale non specializzato, più per assolvere ad un obbligo di legge, che per fare un’analisi effettiva di ciò che l’organizzazione dovrebbe modificare per attenuare il rischio di burnout.