“Noi denunceremo”. È questo il nome di un gruppo Facebook, nato su iniziativa di Luca e Stefano, padre e figlio del bergamasco che, dopo aver perso rispettivamente un genitore ed un nonno a causa del Coronavirus, hanno un unico scopo: quello di “assicurare giustizia e verità” per tutte le persone morte di Covid, nel silenzio e nella solitudine. Nel gruppo, che conta quasi 50mila membri, ci sono persone accomunate dal dolore, dalla perdita e dal desiderio di rendere giustizia ai propri cari che purtroppo non ce l’hanno fatta nella dura lotta contro quel nemico invisibile che ha ormai cambiato le vite di ognuno di noi. “Questo gruppo – scrive il fondatore Luca Frusco a cui il coronavirus ha portato via il papà – nasce per un bisogno di giustizia e di verità, per dare pace ai nostri morti che non hanno potuto avere nemmeno una degna sepoltura a seguito della pandemia. Quando sarà tutto finito, chi ha sbagliato e girato la testa dall’altra parte, dovrà pagare. Denunceremo e chiederemo giustizia. In memoria di mio padre e di tutti quelli che, insieme a lui, sono morti (e moriranno)”.
Qui è stata cancellata la generazione a cui dobbiamo tutto: “la generazione che ha ricostruito l’Italia, i nati dal 1935 al 1945/48, sono morti tutti, sono stati cancellati, non ci sono più. Non c’è più una generazione: la generazione a cui dovevamo tutto. Io ho 58 anni – racconta Luca – e non avrei mai creduto di vivere una situazione di guerra. Ho capito cosa vuol dire aspettare che arrivasse un bombardamento, avere l’angoscia che qualcuno morisse, il terrore di contare le vittime a fine giornata. Dall’8 marzo fino al 10 di aprile, noi eravamo in guerra. Ad un certo punto non accendevamo nemmeno più la tv perché capivamo l’andamento della giornata a seconda delle ambulanze che passavano. Dove abito io, – prosegue Luca – nella normalità senti un’ambulanza ogni uno o due giorni, quando invece ne conti venti o venticinque in una giornata ti domandi cosa sta succedendo. E sei completamente inerme: ti verrebbe voglia di prendere la macchina ed andare a 500km e invece sei lì, fermo, che aspetti. Aspetti che le bombe arrivino ed esplodano”.
Sono figli, nipoti e familiari che, raccolti intorno ad un’unica promessa, testimoniano attraverso le loro storie il dolore, la morte e l’impotenza di fronte ad un tragico destino. Vogliono raccontare il dramma che hanno vissuto e che molti di noi non riuscirebbero nemmeno ad immaginare e denunciare quello a cui nessuno vorrebbe credere. Perché spesso, nelle loro storie oltre al dolore, che non risparmierebbe le lacrime nemmeno dei cuori più forti, emergono racconti che farebbero pensare anche a presunti casi di malasanità o, peggio ancora, di indifferenza da parte delle istituzioni piuttosto che all’assenza delle autorità sanitarie in un momento di emergenza unico.
Tra dolore e rabbia. Centinaia di fotografie, migliaia di messaggi di affetto, vicinanza e condivisione ma anche di sfogo e di denuncia. Perché, se emerge chiara l’esigenza di condividere i ricordi dei propri cari per elaborare il lutto, in quei post si percepisce anche il sintomo di un mancato ascolto da parte dello Stato e delle istituzioni. Innumerevoli i casi che lamentano l’abbandono in casa di persone malate, sofferenti, che avrebbero necessitato di un ricovero mai avvenuto o disposto troppo tardi. Tragedie e drammi ai quali se ne sommano altri come la storia dei tamponi che, “tutt’ora – ci conferma il signor Fusco – non vengono fatti nemmeno alle persone entrate a stretto contatto con le vittime accertate del Covid-19. Non c’è verso di fare il tampone e non capiamo perché”.
Cristina racconta la storia della sua mamma “che purtroppo il 12 marzo è volata via nel modo peggiore. Abbandonata da un sistema che ha fatto acqua da tutte le parti. Ma la cosa che mi ha lasciata basita, è che dopo 33 giorni dal decesso, ATS (Agenzie di Tutela della Salute) mi chiama per comunicarmi che la mamma era risultata positiva al Covid-19. Disguido burocratico, a detta dell’operatrice – riporta Cristina che intanto spiega come – all’epoca del ricovero, l’11 marzo, la diagnosi era stata polmonite e noi figlie che l’abbiamo accudita, libere di uscire in quanto, a detta dei referti, a lei il tampone non era stato effettuato. Noi non credemmo alla diagnosi e volontariamente ci siamo messe in quarantena ma se avessimo preso per buono ciò che ci era stato detto, quante persone avremmo potuto contagiare qualora avessimo contratto il maledetto nemico? E quanti parenti senza tampone di controllo sono stati lasciati liberi di uscire e infettare altre persone? Perché la burocrazia ha avuto questi disguidi? Non ci sono altre parole da aggiungere, se non che sono deceduti innocenti, vittime di un sistema colpevole di superficialità. Questo mio – conclude Cristina – credo che sia un esempio eclatante. Ciao mamma, non ti dimenticheremo mai”.
Per la “Fase 2” c’è paura ma anche voglia di giustizia. “Adesso che l’emergenza si è attenuata, ora che siamo nella fase di discesa – spiega Luca – siamo terrorizzati che la risalita possa essere domani. La ‘fase due’ ci spaventa un po’ perché non sappiamo se dopo tutti gli errori che sono stati fatti, questa ‘fase due’ sia stata calcolata bene o no. Dovremo fare attenzione, molta. Oltre che, nel frattempo, far luce perché chi ha sbagliato paghi”. A tal proposito la magistratura ha aperto alcune inchieste per indagare sia sulle migliaia di casi di decessi avvenuti nelle Rsa che per la mancata istituzione della zona rossa fra Nembro e Alzano.