Dobbiamo ripensare il lavoro e andare oltre, senza l’assillo della tecnofobia. L’emergenza coronavirus ha accelerato processi di cambiamento già in atto e oggi ci attendono scelte decisive. Sta a noi prendere la giusta direzione verso il nuovo e lasciarci definitivamente alle spalle il ‘900. La pensa così Marco Bentivogli, classe 1970, segretario generale della Fim Cisl e uno dei più innovativi e coraggiosi leader sindacali contemporanei. In questa intervista parliamo del futuro dopo il coronavirus.
Cosa ci sta insegnando l’emergenza coronavirus rispetto agli impatti sul mondo del lavoro? Tu parli del concetto di “oltre” e non di post-emergenza. Cosa intendi per andare oltre?
Il lavoro è l’epicentro di importanti cambiamenti che già erano in atto prima della pandemia. Mutamenti che si incrociano dentro le direttrici delle trasformazioni epocali dell’umanità che riguardano la tecnologia, la demografia e il clima. Covid-19 sta solo accelerando questi processi. Bisogna però che questo tempo sia usato bene. Serve visione e progettazione, quell’andare oltre che non si limiti alla gestione dell’emergenza ma che sappia guardare a un mondo nuovo. Dobbiamo ripensare completamente l’ecosistema in cui viviamo, rigenerando le nostre città e con esse il tessuto produttivo e formativo. Ripensare il modo di abitare e vivere il nostro territorio e i luoghi di lavoro. La rete ci ha mostrato quando sia strategica per tenere in piedi l’economia, la formazione e il lavoro nel nostro paese. Usiamola secondo quelle che erano le intenzioni dei padri di internet per ripensare una migliore gestione del rapporto vita/lavoro, riabitare i nostri borghi e semplificare e rendere efficiente la nostra burocrazia.
Da questa fase vedi una grande occasione per ripensare molti aspetti del lavoro che già traballavano. Quali sono le tue linee guida per una agenda di rinnovamento post, anzi, oltre l’emergenza epidemica? Landini parla di “contratto per il lavoro da casa”. Un po’ retrò?
Dobbiamo lasciarci alle spalle il ‘900, prima lo facciamo e prima riusciamo a dare forma e senso nuovo al lavoro. Partecipazione, co-progettazione, sostenibilità, formazione, fiducia sono alcune delle parole chiave su cui ripensare il lavoro. Questo implica anche l’uso di parole e linguaggi nuovi: prima che si comprendesse la portata dell’invenzione dell’auto, la si continuava a chiamare “carrozza senza cavalli”. Il ripensamento del rapporto tra spazio e lavoro, possibile grazie alle tecnologie, che oggi chiamiamo smart-working è qualcosa di diverso dal telelavoro, è una dimensione del tutto inedita del lavoro e non semplicemente fare a casa quel che si faceva in ufficio o in azienda. E’ una diversa idea di lavoro, dove le persone possono conciliare il loro tempo con il lavoro dentro la realizzazione di un progetto. Quello che stiamo assistendo in questi mesi, invece, è un’ esplosione di lavoro remotizzato. Per questo dico che siamo ancora in ritardo e che occorra andare oltre. Dobbiamo ripensare il lavoro dentro un rapporto di fiducia, sostenibilità e progettualità utilizzando le tecnologie come grandi alleate in questa grande transizione che deve arrivare anche agli spazi fisici della produzione che vanno ripensati, resi più sani e belli.
E’ davvero un passaggio epocale quello che stiamo vivendo? Come spesso è capitato nella storia da grandi shock nascono fasi successive di trasformazione palingenetiche. In questi casi, tuttavia, mi piace sempre ricordare il Manzoni: “Non tutto ciò che viene dopo è progresso”. Siamo a questo appuntamento storico?
Assolutamente si,uso una immagine metaforica: stiamo saltando un burrone, o riusciamo, attraverso la spinta di tutte le energie positive, a raggiungere l’altra sponda dove ci aspetta il “mondo nuovo” oppure rischiamo di ricadere in basso, rischiando di farci molto male. Per questo non bisogna gongolarsi con l’idea che tutto andrà meglio a prescindere perché dare un indirizzo positivo al cambiamento dipende da noi. La crisi può certamente aprire grandi opportunità ma anche allargare le diseguaglianze e farci arretrare di anni se ci siederemo in posizione attendista. Penso ad esempio al rischio che questa situazione, in cui le famiglie con le scuole chiuse e i nonni in condizione di non poter tenere i bambini, possa travolgere le donne mettendole davanti alla triste, e anacronistica, scelta tra lavoro e cura della famiglia. Sarebbe un disastro che ci farebbe perdere in pochi mesi 50 anni di lotte sindacali per l’emancipazione delle donne nel lavoro e nella società. Così anche la rincorsa all’automazione spinta, che molte aziende stanno facendo o faranno, se non dovesse avvenire dentro una dimensione progettuale di futuro in cui al centro ci sia l’uomo, potrebbe rappresentare un problema serio. Siamo ad uno snodo nevralgico epocale che necessita di una classe dirigente visionaria che sappia anticipare e orientare questi cambiamenti secondo direttrici di sostenibilità.
Dal punto di vista dei nuovi modelli di organizzazione del lavoro sta avanzando l’idea di un modello più “democratico” in cui il ruolo dei capi è meno pervasivo a tutto vantaggio di una maggiore autonomia e responsabilità dei dipendenti. Semplificando, ciò che conta è la performance. E’ un tema già noto ma che da questa fase di passaggio potrebbe trovare nuova linfa. Che ne pensi?
Certo. C’è chi ancora continua a pensare al lavoro come un’autostrada bicolore che vede da una parte il lavoro autonomo e dall’altra quello dipendente. Non ci si accorge, invece, che va configurandosi una modalità di lavoro ibrida che non può essere incasellata dentro le norme e i regolamenti del ‘900. Per questo serve quella che io definisco la capacità di saper scrivere su un foglio bianco nuove regole e nuovi diritti, in cui la tecnologia può esserci di grande aiuto: penso agli smart contract attraverso tecnologia blockchain, che oggi potrebbe essere usata anche per tracciare e ripensare le nostre filiere e la loro sostenibilità.
Hai scritto un bel libro dal titolo “Contrordine compagni” (a parte il titolo) in cui il tema di fondo è che non bisogna aver paura del progresso tecnologico, che porta con sé incognite ma anche tante opportunità. Queste settimane di quarantena forzata hanno dimostrato che la tecnologia è più utile che mai. Come rileggi quel testo alla luce degli ultimi eventi?
La tecnofobia, come la definisco nel mio libro, è la versione moderna del luddismo, una malattia da cui non siamo mai veramente guariti e molto insidiosa in quanto antagonista dell’innovazione.E’ forse uno dei caratteri che più ci connota come popolo. Ricordo sempre che l’introduzione della tv a colori fu, sul finire degli anni ’70 e inizio degli anni ’80, campo di battaglia aperto tra le forze politiche.Oggi più che mai abbiamo toccato con mano come la tecnologia sia fondamentale per mandare avanti il Paese; immaginiamo cosa sarebbero stati questi mesi di lockdown senza la rete internet: un paese completamente fermo. Continuiamo a pensare che la tecnologia distrugga l’occupazione, ma questo approccio non fa che favorire l’Italia pigra e furba perché la tecnologia stessa, se mette al centro l’uomo, è motore di innovazione, cambiamenti e lavoro. È sempre stato cosi nella storia dell’umanità.
E’ arrivata l’ora per il sindacato di contrattare non solo il salario ma soprattutto il benessere dei lavoratori dentro e fuori il perimetro dell’attività lavorativa?
Il salario è assolutamente una componente importante del lavoro, ma non la sola. Quando parliamo di lavoro, dobbiamo pensare a qualcosa che riguarda integralmente l’umanità e la nostra casa: la Terra. Il lavoro non è solo l’attività produttiva, è il luogo fisico e immateriale dove l’uomo dà vita alla sua creatività e in cui si riconosce e si realizza come persona. Attraverso il lavoro si possono umiliare e rendere schiave le persone, si possono depredare le risorse del nostro pianeta, distruggere interi ecosistemi, inquinare e rendere la vita delle persone un inferno. Dobbiamo approfittare di questo momento per liberare finalmente le persone non dal lavoro, ma nel lavoro. La formazione è la chiave di volta per farlo è la “moneta intellettuale”, come giustamente la definisce Franco Amicucci di Skilla, che rappresenta il vero diritto al futuro delle persone. In questo senso, faccio mie le parole di papa Francesco: il lavoro degno è quello sicuro e giustamente retribuito. Ma è tale, solo se libero, creativo, partecipativo e solidale. Questo è possibile solo se forniamo alle persone gli strumenti di consapevolezza che solo scuola e formazione possono dare. Questi mesi hanno mostrato a tutti come sicurezza e salute vengano prima di ogni cosa. Per rendere giustizia alle migliaia di morti che la pandemia si è portata via e a tutti coloro che sono deceduti svolgendo il laro lavoro, dobbiamo trasformare questo momento una grande occasione per ripensare, secondo una nuova idea di sicurezza, gli spazi di lavoro e i territori rendendoli più sani e sicuri, belli e sostenibili. Creare degli ecosistemi territoriali dove fabbriche, scuole, pubblica amministrazione, banche, lavorino insieme con l’obbiettivo comune di generare benessere per tutti nel rispetto della sostenibilità ambientale.
3 commenti
[…] e illuminante in tal senso è l’intervista di Marco Bentivogli ( vi consiglio di leggere l’intero articolo) nella parte in cui […]
Ma la formazione tecnolgica dei lavoratori a chi sarebbe demandata ? E chi la paga la formazione ? L’università è completamente ferma gli unici che funzionano sono gl its ma non sono per i lavoratori e allora da dove partiamo ?
marco bentivogli è un grande e lungimirante sindacalista forse sicuramente più avanti di tanti nel sindacato ! Sono sicura che una soluzione può essre trovata affinche’ la calssse operaia faccia veramnete il salto alle condizioni migliori a livello di ciscuno sotto il profilo intellettuale e prifessionale.