Con la sentenza n. 19782 del 19.9.2014 la Corte di Cassazione ha avuto modo di ribadire il consolidato orientamento in merito ai presupposti necessari per la configurabilità del cosiddetto mobbing ed al relativo regime processuale di ripartizione degli oneri probatori.
In estrema sintesi, il caso di specie riguarda un dipendente che agiva in giudizio nei confronti del proprio ex datore di lavoro, lamentando di essere stato destinatario di una condotta datoriale di natura persecutoria, a seguito della quale avrebbe patito numerosi danni e dei quali chiedeva il risarcimento. Tale domanda veniva rigettata sia in primo grado dal Tribunale, sia in secondo grado dalla Corte di Appello, sul presupposto della ritenuta legittimità della condotta datoriale contestata.
Chiamata a pronunciarsi in ultima istanza a seguito del ricorso proposto dal lavoratore, la Suprema Corte confermava in via definitiva la correttezza della sentenza di appello. In particolare, la Corte di Cassazione, richiamando alcuni propri precedenti in materia, affermava anzitutto che “nella disciplina del rapporto di lavoro (…), il datore di lavoro non solo è contrattualmente obbligato a prestare una particolare protezione rivolta ad assicurare l’integrità fisica e psichica del lavoratore dipendente (ai sensi dell’articolo 2087 c.c.), ma deve altresì rispettare il generale obbligo di neminem laedere e non deve tenere comportamenti che possano cagionare danni di natura non patrimoniale, configurabili ogni qual volta la condotta illecita del datore di lavoro abbia violato, in modo grave, i suddetti diritti”.
Compiuta tale premessa, i Giudici di Legittimità passavano, poi, all’analisi del c.d. mobbing, ritenendolo incluso tra le “situazioni potenzialmente dannose e non normativamente tipizzate” e definendolo, in particolare, come “un complesso fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all’obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo”.
Più specificamente, la Suprema Corte, ribadendo quanto in più occasioni affermato in proprie recenti pronunce, elencava specificamente i requisiti necessari la cui contestuale sussistenza è indispensabile “ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo”, ossia:
“a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano stati posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi;
b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;
c) il nesso eziologico tra la descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità;
d) il suindicato elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi”.
Tutto ciò chiarito, la Suprema si soffermava da ultimo, sul criterio di ripartizione degli oneri probatori, confermando, ancora una volta, come spetti al lavoratore l’onere di provare la sussistenza di tutti i predetti elementi costitutivi del mobbing e, proprio sulla base di tali premesse, riteneva che nel caso di specie la sentenza impugnata era priva di vizi, avendo la Corte di Appello accertato che “i fatti dedotti dall’appellante non sarebbero stati di per sé soli sufficienti a configurare la sussistenza di una condotta mobbizzante da parte del datore di lavoro, dovendosi provare l’esistenza di comportamenti, protratti nel tempo, che rivelassero, in modo univoco, un’esplicita volontà di quest’ultimo di emarginazione del primo”.
In particolare, secondo la Cassazione, i giudici di merito avevano correttamente escluso che nella fattispecie in esame “si potesse configurare il c.d. terrorismo psicologico e, comunque, l’elemento dequalificante e discriminatorio dell’asserito mobbing, difettando l’esistenza degli elementi strutturali sia sotto il profilo oggettivo, costituito dalla frequenza e ripetitività nel tempo dei comportamenti del datore comportanti abusi nei confronti del lavoratore, sia sotto il profilo soggettivo, rappresentato dalla coscienza ed intenzione del primo di causare danni”.
In conclusione, la citata sentenza risulta del tutto coerente con il consolidato orientamento giurisprudenziale registrato in materia di mobbing, sia per quanto concerne l’individuazione dei presupposti necessari per l’accertamento di tale fattispecie, sia con riferimento al criterio di ripartizione dell’onere della prova tra le parti in causa, in ossequio al regime ordinario di cui all’art. 2697 c.c. in virtù del quale spetta a chi agisce in giudizio fornire la prova dei fatti costitutivi a fondamento delle proprie domande.