“Abbiamo ricostituito una serie di diritti con il decreto dignità, sta diminuendo il lavoro somministrato ed era il mio obiettivo: perché i contratti di somministrazione molto spesso sono il nuovo capolarato in Italia”. Con queste parole l’attuale Ministro del lavoro Luigi Di Maio, nel commentare gli effetti dell’introduzione del proprio decreto legge, fece una scelta di campo indiscutibile nei confronti di quello che, storicamente, è sempre stato individuato come uno strumento di cosiddetta. “flessibilità buona”. Uno strumento improvvisamente ritenuto, a torto, foriero di precarizzazione e da contenere il più possibile.
In questo contesto motivazionale, la lettura del rinnovato quadro normativo desta non poche perplessità, perché pare non perfettamente allineata rispetto a questa manifestata intenzione. Basta semplicemente leggere il d.lgs. n. 81/2015 – reso “dignitoso” dal recente intervento riformatore – per comprendere che, ove l’Agenzia per il lavoro assuma a tempo indeterminato il lavoratore da somministrare, non vi è alcuna causale da apporre (né al contratto di lavoro, né tantomeno al contratto di somministrazione) per giustificare l’utilizzo di tale forma di flessibilità; e ciò vale sia che la somministrazione sia a sua volta a tempo indeterminato (staff leasing) sia che la stessa sia a tempo determinato.
Si tratta di una conclusione figlia di una precisa impostazione normativa: la scelta di agire sul contratto di lavoro e non su quello di somministrazione. Laddove la legge Biagi aveva collocato l’obbligo di apporre il cd. “causalone” all’interno del contratto di somministrazione, il Legislatore del Decreto dignità introduce sì un obbligo motivazionale molto più stringente, ma lo colloca all’interno del contratto di lavoro. Se l’APL decide di assumere a tempo determinato i propri dipendenti da somministrare, deve rispettare gli stessi obblighi motivazionali di ogni altro datore di lavoro e, se non lo fa, ne risponde in prima persona, potendo essere sanzionata con la “trasformazione” a tempo indeterminato del rapporto.
Si è introdotto, in buona sostanza, un vantaggio competitivo eccezionale a favore della somministrazione a tempo determinato rispetto al contratto a termine, posto che, nell’attuale contesto normativo, questa appare essere l’unica forma di acquisizione di manodopera a tempo determinato completamente libera da obblighi causali, anche se reiterata più volte o prorogata oltre i 12 mesi (certamente senza la possibilità di eccedere il periodo di 24 mesi complessivi, ovvero il diverso limite stabilito dalla contrattazione collettiva, anche aziendale).
A tale considerazione deve poi aggiungersi che rimane tuttora oggetto di discussione se la somministrazione a tempo determinato soggiaccia, o meno, a limiti di carattere quantitativo, nell’ipotesi in cui l’utilizzatrice non faccia contemporaneamente uso del contratto di lavoro a termine. L’impianto normativo voluto dal Legislatore del Decreto dignità pare imporre limiti all’utilizzo congiunto di queste due forme contrattuali e non all’impiego del solo contratto di somministrazione a tempo determinato. Sicché può ritenersi che, in mancanza di diversa previsione della contrattazione collettiva, non sussista un vero e proprio limite quantitativo che imponga di contenere l’utilizzo di questo strumento di flessibilità. Ed anche prescindendo da tale passaggio interpretativo, non può certamente dirsi penalizzato l’impiego di un contratto che, pur seguendo l’impostazione più limitativa tra quelle astrattamente possibili, può avere ad oggetto il 50% della forza lavoro impiegata dalla utilizzatrice: ove i lavoratori siano assunti a tempo indeterminato dalla APL, ed in assenza di diverse previsioni della contrattazione collettiva applicata dalla utilizzatrice, quest’ultima avrà facoltà di impiegare lavoratori in staff leasing fino al 20% dei propri assunti a tempo indeterminato e lavoratori in somministrazione a tempo determinato per (almeno) un ulteriore 30%; il tutto senza avere l’obbligo di apporre causali di nessun tipo.
Concludendo, lette le affermazioni del Ministro non si può non ritenere di essere di fronte ad un clamoroso caso di eterogenesi dei fini, posto che l’unica possibile lettura del rinnovato contesto normativo impone l’affermazione che il Legislatore sia stato mosso da una motivazione di carattere non intenzionale: quella di promuovere l’utilizzo della somministrazione rispetto alle altre forme di contratto di lavoro flessibile.
Scritto da Avv.to Andrea Bonanni, partner LabLaw