Lo ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 26307, del 15.12.2014, resa nell’ambito di un giudizio promosso da una lavoratrice, licenziata per aver superato il limite dei giorni di assenza dal lavoro stabilito dal CCNL di riferimento vigente.
A seguito del ricorso proposto dalla lavoratrice avverso il predetto recesso datoriale, il Tribunale del Lavoro di Bergamo dichiarava illegittimo il licenziamento e ordinava la reintegrazione della dipendente nel posto di lavoro, condannando altresì la Società al risarcimento del danno. Avverso la predetta sentenza la Società proponeva ricorso in appello domandandone la totale riforma.
La Corte di Appello di Brescia confermava integralmente la pronuncia del Tribunale di Bergamo, ribadendo quanto già esposto dal primo Giudice in ordine al fatto che la malattia da ultimo denunciata dalla lavoratrice, pari a 19 giorni, era da ricollegarsi a causa di lavoro e alle mansioni a lei affidate e che, pertanto, tale periodo, non doveva essere ricompreso nel periodo di comporto.
La società datrice di lavoro proponeva allora ricorso in Cassazione, sostenendo l’erroneità della sentenza, ed in particolare, la violazione e l’errata applicazione dell’art. 2110 c.c., sia per aver ritenuto sussistente un nesso di causalità tra le mansioni affidate alla dipendente e le assenze dal lavoro per malattia della stessa, sia per essersi limitata a riconoscere la natura professionale della malattia da ultimo denunciata dalla lavoratrice ed aver, solo sulla base di questa circostanza, escluso tali giorni di assenza dal periodo di comporto.
Tali motivi non sono stati ritenuti meritevoli di accoglimento da parte della Suprema Corte, che, con la pronuncia in commento, ha integralmente confermato la sentenza di appello. In particolare, la Corte di Cassazione ha ritenuto la sentenza di appello sufficientemente motivata in ordine alla sussistenza del nesso di causalità tra l’assenza da ultimo denunciata dalla lavoratrice dovuta a lombosciatalgia e le mansioni a lei affidate consistenti nel “sollevamento di pacchi di fascicoletti (detti segnature) del peso di circa 40-50 chili”.
I Giudici di legittimità hanno rilevato inoltre come la Corte di Appello abbia fondato il proprio giudizio su prove concrete, ossia sulle certificazioni mediche prodotte, sulla deposizione del coniuge della lavoratrice, nonché su alcune circostanze riconosciute dalla stessa società datrice di lavoro a riprova della gravosità delle mansioni svolte dalla dipendente.
La Corte di Cassazione ha evidenziato poi la correttezza delle conclusioni rassegnate dalla Corte di Appello in ordine al fatto che le mansioni affidate alla lavoratrice fossero portatrici di un “rischio specifico di patologie al rachide e alla muscolatura dorsale lombare” e pertanto in contrasto sia con quanto disposto dall’art. 48 del D.Lgs. n. 626/1994 il quale impone a “al datore di lavoro di adottare misure atte ad evitare o ridurre i rischi di lesioni dorso – lombari tenendo conto dei fattori individuali di rischio” sia con quanto sancito dall’art. 11, della L. n. 653/1934 “che prevede un peso massimo di 20 chili per lo spostamento manuale senza rischi per le donne”.
Sulla base di tali considerazioni, dunque, la Corte di Cassazione ha ritenuto sussistente la responsabilità ex art. 2087 c.c. del datore di lavoro per la malattia da ultimo denunciata dalla lavoratrice, ed ha confermato l’esclusione di tale ultimo periodo di assenza dal lavoro della stessa, pari a 19 giorni, dal periodo di comporto. In conclusione, con la pronuncia in esame, la Corte di Cassazione ha ribadito l’ormai consolidato principio secondo cui dal periodo di comporto “devono essere scomputati i periodi di assenza dovuti alla violazione, da parte del datore di lavoro, delle norme poste a tutela della salute dei dipendenti”.
Cosa sarebbe successo con contratto a tutele crescenti (Jobs Act) – A seguito del giudizio di cui sopra e dell’accertata illegittimità del licenziamento, la lavoratrice è stata reintegrata e la società è stata condannata al pagamento del risarcimento dei danni in applicazione di quanto disposto dal dall’art. 18, L. n. 300/1970, nella formulazione previgente alle modifiche introdotte dalla L. n. 92/2012. Qualora la lavoratrice fosse stata assunta dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 23/2015 recante “Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183”, il trattamento sanzionatorio derivante dall’illegittimità del licenziamento sarebbe stato differente.
Al riguardo è necessario premettere che, a differenza dell’art. 18, L. n. 300/1970, come da ultimo modificato dalla L. n. 92/2012, che prevede una disciplina specifica per il licenziamento intimato in violazione dell’art. 2110 c.c., il D.Lgs. n. 23/2015 nulla dice sul punto. Ne deriva allora che, ai sensi di quanto disposto dall’art. 3, comma 1 del D.Lgs. n. 23/2015 la reintegra non sarebbe stata possibile e, pertanto, alla lavoratrice, in ragione dell’illegittimità del licenziamento intimatole, avrebbe avuto diritto esclusivamente al pagamento di un’indennità “non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità”.