A stabilirlo è la Corte di Cassazione, con la recente sentenza n. 27055 del 3.12.2013, con cui la Suprema Corte ha ribadito con forza il principio secondo cui sussiste un divieto assoluto di licenziare le lavoratrici nel periodo compreso tra le pubblicazioni
delle future nozze e l’anno successivo alla celebrazione delle stesse, divieto che viene meno solo nella drastica ipotesi di cessazione dell’attività aziendale.
La vicenda processuale trae origine, in estrema sintesi, dal ricorso presentato nel lontano 2005 da una lavoratrice addetta al centralino di un’azienda, con cui la stessa impugnava il licenziamento intimatole entro l’anno dal suo matrimonio a fronte della prevista esternalizzazione del servizio di centralino nell’ambito di un piano di ristrutturazione aziendale. Il Tribunale di Roma, in primo grado, dichiarava la nullità del recesso, condannando la Società al pagamento di tutte le retribuzioni non percepite dalla lavoratrice fino al momento della sua riammissione in servizio. In secondo grado, veniva rigettato il ricorso in appello proposto dalla Società, la quale ricorreva da ultimo in Cassazione.
Due i principi importanti ribaditi dalla Suprema Corte con la sentenza in commento.
In primo luogo la Cassazione ha confermato il principio secondo cui un licenziamento deve ritenersi effettuato entro l’anno dalle nozze, quando lo stesso viene disposto dal datore di lavoro entro tale termine, seppur temporalmente differito a fronte del periodo di preavviso. L’art. 1, L. n. 7/1963 dispone, infatti, che sono “nulli i licenziamenti attuati a causa del matrimonio”, specificando che “si presume che il licenziamento della dipendente nel periodo intercorrente dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio (…), a un anno dopo la celebrazione (…), sia stato disposto per causa di matrimonio”. La lettera della norma, osserva la sentenza, non lascia spazio a dubbi di sorta, in quanto è chiara nel prevedere che la presunzione di nullità debba essere riferita a tutti i licenziamenti che siano stati “decisi” dal datore di lavoro durante il periodo di tutela garantito dalla legge, indipendentemente dal momento di operatività del recesso. “Una diversa interpretazione – spiega la Sezione Lavoro della Cassazione con la sentenza n. 27055 – porterebbe del resto a soluzioni in contrasto non solo con la formulazione letterale della norma ma anche con la ratio della disciplina finendo con il consentire abusi e l’aggiramento della normativa in parola”.
In secondo luogo, la Suprema Corte, ha ribadito il principio secondo cui, eventuali ragioni legate all’attività produttiva e all’organizzazione del lavoro, non consentono di giustificare il licenziamento di una lavoratrice nell’arco temporale “protetto”, come tale consentito solo in ipotesi di cessazione dell’attività. Ciò evidentemente a fronte di un equo bilanciamento di interessi costituzionali contrapposti, che vede prevalere la ratio di tutela rafforzata della lavoratrice in un momento di “passaggio esistenziale particolarmente importante”, sul principio di libertà imprenditoriale di cui all’art. 41 della Costituzione.