Nella pronuncia in commento, la Suprema Corte stabilisce che costituisce reato di ingiuria, ai sensi dell’art. 594 c.p., la frase “lei non capisce un cazzo”, rivolta dal dipendente al datore di lavoro.
La Corte, investita del ricorso da parte della Procura, ribalta la sentenza di primo grado, pronunciata dal Giudice di pace di Frosinone, che aveva assolto il lavoratore dall’imputazione di cui all’art. 594 c.p. con formula perché il fatto non costituisce reato in quanto aveva ritenuto che l’espressione contestata era priva di carattere offensivo in quanto “entrata nel gergo comune” e, nella fattispecie, pronunciata nel corso di una discussione di lavoro ed intesa solo a comunicare in modo efficace il proprio dissenso.
Il Procuratore della Repubblica osservava, invece, che l’espressione assumeva significato ingiurioso proprio in quanto collocata nell’ambito di quella discussione, quale volgare affermazione di incompetenza del datore di lavoro dell’imputato.
Gli Ermellini, accogliendo il ricorso della Procura, ritengono che è “l’espressione stessa, letta complessivamente e nel contesto in cui veniva pronunciata, ad assumere carattere ingiurioso, laddove vi veniva rimarcata con particolare asprezza di tono e nel corso di una discussione di lavoro, l’incompetenza della persona offesa nella materia oggetto della discussione. La condotta esorbitava pertanto dalla mera manifestazione di contrasto di opinioni tra l’imputato e la parte offesa, presentandosi viceversa quale offesa all’onore professionale di quest’ultima in quanto tale”.
La pronuncia offre lo spunto per fare brevi cenni sulle caratteristiche e i limiti del diritto di critica nell’ambito del rapporto di lavoro. Se è vero, infatti che nell’esercizio del diritto di critica, specificazione della libertà di opinione riconosciuta dalla Costituzione, è logicamente intrinseca una valenza offensiva nei confronti del destinatario che può dar luogo a compressione del diritto alla reputazione della persona, è pur vero che essa non può spingersi fino a calpestare “quel minimo di dignità e di immagine di cui ogni persona fisica o giuridica ha sempre diritto” (così Cass. Civ. sez lav. 11220 del 14.6.2004).
Nel bilanciare il diritto di critica del lavoratore con la tutela dell’onore del datore di lavoro, la Corte ha contestualizzato le espressioni intrinsecamente ingiuriose del lavoratore e, pervenendo a conclusioni opposte rispetto a quelle del giudice di pace, ha rinvenuto nell’espressione usata una valenza offensiva ex se, priva di esimenti (“al di là della questione sull’attuale appartenenza o meno al parlare comune del termine volgare riportato”).
A cura dell’Avvocato Francesco Rotondi