La Corte di Cassazione, con la recente sentenza n. 618 del 15 gennaio 2015, ha affrontato nuovamente la complessa questione della individuazione dei caratteri tipici del lavoro subordinato, ribadendo i propri consolidati orientamenti ermeneutici, più volte recepiti anche dai giudici di merito.
Il caso sottoposto al vaglio del giudice di legittimità riguardava la vicenda di una lavoratrice che, dopo aver inizialmente prestato la propria attività in qualità di prestatrice d’opera professionale (e prima ancora quale lavoratrice “in nero”), era stata assunta con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. L’oggetto del giudizio, dunque, riguardava solo il primo periodo di vita del rapporto, che, se riqualificato in termini di lavoro subordinato, avrebbe comportato la necessità di ricostruire ab origine la posizione della lavoratrice, sia sul piano retributivo (es. con il ricalcolo del TFR e degli scatti di anzianità) che su quello contributivo.
Il giudice di merito ha accertato che il rapporto di lavoro si era svolto sin dall’inizio secondo le modalità tipiche del lavoro subordinato, e più in particolare ha rilevato la sussistenza dei tradizionali indici rilevatori della subordinazione, così come definiti da un orientamento di legittimità ormai costante.
La Suprema Corte, prima di scrutinare la motivazione fornita dai giudici d’appello, ed in corretta attuazione del ruolo nomofilattico che le è proprio, ha delimitato i confini del proprio intervento, che per sua natura deve essere limitato ad un esame dei criteri generali e astratti applicati al caso concreto, e non può estendersi sino a sindacare la valutazione dei fatti e delle risultanze processuali che hanno indotto il giudice del merito ad includere il rapporto controverso nell’una o nell’altra tipologia contrattuale.
Posti tali principi, lungi dall’entrare nel merito della qualificazione dei fatti di causa, la Corte di Cassazione ha avallato la bontà dei criteri utilizzati dal giudice del merito al fine di accertare la natura subordinata o autonoma del rapporto, ossia: (i) l’eterodirezione della prestazione lavorativa, (ii) l’avvenuto inserimento della lavoratrice nell’organizzazione aziendale, nonché, last but not least, (iii) la contemporanea sussistenza dei cc.dd. indici sussidiari della subordinazione, quali la continuità della prestazione lavorativa, il rispetto dell’orario, la riscossione di un compenso fisso e mensilizzato. Un tale approdo, pur nella sua estrema semplicità espositiva, è pienamente coerente con i principi ripetutamente espressi dalla stessa Corte di Cassazione.
Per giurisprudenza ormai costante, infatti, al fine di accertare la natura autonoma o subordinata del rapporto di lavoro occorre verificare, in primis, se ricorra o meno il requisito tipico della subordinazione, da intendersi come soggezione al potere direttivo, disciplinare e di controllo dell’imprenditore (sono questi i cc.dd. “indici primari della subordinazione”). Più in particolare, la Suprema Corte ha più volte precisato che il vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, si estrinseca nell’emanazione di ordini specifici, oltre che nell’esercizio di un’assidua attività di vigilanza e controllo nell’esecuzione delle prestazioni lavorative.
L’esistenza di tale vincolo, peraltro, va concretamente apprezzata rispetto alla specificità del ruolo attribuito al lavoratore ed alla sua attuazione, posto che qualsiasi attività professionale può essere oggetto tanto di un rapporto di lavoro subordinato quanto di un rapporto di lavoro autonomo. Inoltre, gli altri caratteri dell’attività lavorativa (come: la continuità della prestazione, la corresponsione della retribuzione in forma fissa e costante nel tempo, l’obbligo di rispettare un orario di lavoro fisso, l’assenza di rischio in capo al prestatore di lavoro, l’eventuale assoggettamento ad un potere di controllo del committente/datore di lavoro; cc.dd. “indici sussidiari della subordinazione”), singolarmente considerati, non possono di per sé assumere rilievo determinante, essendo essi astrattamente compatibili sia con il rapporto di lavoro subordinato, sia con quelli di lavoro autonomo.
Fin qui, dunque, la sentenza in commento si limita a ribadire concetti già espressi e che possono ritenersi ormai “ius receptum”. Resta però un dubbio: nel ribadire il proprio consolidato orientamento, la Corte di Cassazione non si è espressa circa un interessante passaggio della sentenza impugnata, laddove veniva valorizzata, a fianco dei classici indici della subordinazione, anche la volontà contrattuale delle parti, come manifestatasi nel concreto atteggiarsi del rapporto.
In particolare, il giudice del merito aveva valorizzato il fatto che, dopo tre anni e mezzo nei quali il rapporto si era svolto secondo un fittizio rapporto di lavoro autonomo, le parti avevano sottoscritto un contratto di lavoro subordinato, così riconoscendo implicitamente la riconducibilità del rapporto a tale tipologia contrattuale. L’argomento logico in questione si pone nel solco di un interessante filone giurisprudenziale che, quantomeno a fronte di situazioni dubbie, tende sempre più a valorizzare la volontà negoziale delle parti, come avviene, ad esempio, “in tutte quelle fattispecie in cui i caratteri differenziali tra due (o più) figure negoziali appaiono non agevolmente tracciabili” (così, Cass. 18.4.2007, n. 9264) oppure nel caso in cui la conformazione fattuale del rapporto non risulti del tutto univoca o decisiva (Cass. 23.7.2004, n. 13884).
La Corte, forse per eccesso di prudenza, non ha voluto approfondire il passaggio in questione e così facendo, probabilmente, ha perso l’occasione di definire meglio il valore che può essere attribuito alla volontà negoziale delle parti, che deve intendersi sia con riferimento al “nomen iuris” utilizzato in sede di stipulazione del contratto, sia con riguardo al comportamento tenuto successivamente dalle parti.
Conclusivamente, resta aperto il dubbio se tale ultimo criterio possa assumere lo stesso “peso” che è proprio degli indici sussidiari della subordinazione (o anche, in ipotesi, un un peso maggiore) o se, invece, sia destinato ad operare solo in un’ottica di extrema ratio, nei soli casi in cui l’applicazione dei tradizionali criteri non consenta di giungere a conclusioni certe circa la corretta qualificazione del rapporto.