Il dato fa impressione. Sembra che laurearsi nel nostro Paese non abbia alcun valore in termini occupazionali: sono 200 mila i laureati (sotto i 35 anni) senza lavoro secondo le ultime rilevazioni Istat. Solo nel 2012 i disoccupati “titolati” sono aumentati del 27,6% rispetto al 2011 e del 43% se facciamo il paragone con il 2008.
Eppure, un’altra ricerca, questa volta proveniente dal Ministero del lavoro (Excelsior-Unioncamere), ci dice che per il 2013 mancano all’appello o sono di difficile reperimento circa 47 mila figure professionali. Tra queste, quelle maggiormente richieste e con difficoltà di reperimento sono specialisti in economia e gestione d’impresa, dirigenti, architetti, ingegneri, specialisti di marketing, specialisti in scienze matematiche, esperti informatici, in altre parole, mancano migliaia di lavoratori della conoscenza di cui le aziende hanno bisogno. Sul totale delle assunzioni previste per il 2013, quelle laureate e introvabili, sono il 20 per cento del totale, quasi 10 mila. I conti non tornano?
Un’amara annotazione statistica – Se si guarda indietro, si può notare che la crisi ha colpito anche il “settore” dei lavori non occupati per mancanza di manodopera e professionisti qualificati. Nel 2012 le figure introvabili erano 65.500 e nel 2008, hanno d’inizio della crisi economica, erano addirittura 217 mila, il 26% del totale delle nuove assunzioni.
Il presidente di Unioncamere, Ferruccio Dardanelli, in una dichiarazione apparsa su Il Sole 24 Ore a commento di questi dati, ha sostenuto che: “E’ indispensabile uno sforzo straordinario per offrire a tutti i giovani la possibilità di conoscere il mondo dell’impresa già durante il corso di studi, attraverso percorsi di apprendimento in azienda che siano completamente integrati nel curriculum formativo, come accade già in altri paesi.”
Università non fa rima con lavoro – E’ ormai conclamato che in Italia esista una sostanziale incomunicabilità tra mondo del lavoro e quello accademico. Il risultato di questo corto circuito è sotto gli occhi di tutti: lauree tecniche con pochi giovani interessati e laureati in materie “sature”, o con scarsi sbocchi professionali, stracolmi di aspiranti “sognatori”. Forse il problema è proprio qui: il punto discriminante è il tipo di laurea che si ha in tasca. Non tutte, infatti, permettono di accedere facilmente al mondo del lavoro e di far carriera.
Pochi laureati in Italia – Permane, inoltre, un altro dato negativo del nostro Paese – e apparentemente in contraddizione con le valutazioni sul dato Istat – rispetto agli standard europei: i nostri laureati sono pochi. Nel 2011 – secondo i dati forniti da Andrea Camelli, direttore del consorzio universitario Almalaurea – solo il 20% dei 30-34enni aveva una laurea, contro il 45,8% del Regno Unito, in testa alla speciale classifica, il 40% della Spagna, il 23% della Repubblica Ceca e il 34,6% della media europea. Una quota, peraltro, molto distante dagli obiettivi europei fissati per 2020 (40%). Il governo, infatti, ha rivisto al ribasso il dato prevedendo un tetto massimo del 26-27%. “Secondo l’Ocse – ha detto il professor Cammelli – un laureato guadagna, nell’arco della vita, circa il 48% in più di undiplomato, mentre il tasso di occupazione tra i laureati fino ai 64 anni è del 77% contro il 64% di chi ha un titolo di studio inferiore. Dobbiamo investire di più nella formazione culturale dei giovani – ha concluso Cammelli – seguendo l’esempio del contadino che in tempi di carestia taglia su tutto, ma non sulla semina”.
Insomma, servono più laureati per il mondo del lavoro. Ma come si concilia questa esigenza con l’elevato numero di disoccupati laureati?
Laureati, diplomati o con “zero tituli”. Chi sta peggio? – Tornando all’Italia bisogna ricordare, tuttavia, che nel panorama dei giovani disoccupati, comunque i laureati hanno un tasso di disoccupazione inferiore a chi non ha titoli. Se il 14,7% dei laureati è disoccupato, la percentuale sale nel caso dei diplomati al 18,9%, e per coloro che hanno solo la licenzia media al 24,9%. Tra chi non ha nessun titolo di studio, infine, lavora solo uno su quattro.
La laurea in generale è sempre un buon investimento su se stessi che va oltre la sola valutazione in termini di occupabilità. Sarebbe un grave errore, tuttavia, foriero di pesanti frustrazioni, sottovalutare lo sbocco occupazionale del proprio titolo di studio accademico sia per i singoli neolaureati che per il Paese. La questione, forse, è tutta qui.