È legittimo il licenziamento per giusta causa comminato da un istituto di credito ad un cassiere di banca allontanatosi dal posto di lavoro senza chiudere la cassa, per recarsi al bar.
Questo è quanto affermato dalla Corte di Cassazione lo scorso 28 marzo con sentenza n. 7819, nella quale i giudici, confermando il verdetto della Corte di Appello di Caltanissetta, hanno ritenuto legittimo il licenziamento comminato dalla Banca Credito Emiliano ad un proprio impiegato che, nel lontano novembre del 1997, si era allontanato dal proprio posto di lavoro lasciando in sospeso una importante operazione finanziaria del valore di quasi mezzo miliardo di lire, del tutto incurante della presenza di altri 15 clienti davanti allo sportello (!).
Vi è da precisare che tale condotta era stata preceduta da altre infrazioni disciplinari, puntualmente contestate dall’Istituto: il giorno prima, infatti, il cassiere si era rifiutato di effettuare un’operazione richiesta da un cliente, lo stesso si era poi allontanato dal posto di lavoro senza chiudere la cassa, omettendo di registrare un versamento effettuato da un altro cliente.
In sede di giustificazioni, il dipendente evidenziava che l’allontanamento dal posto di lavoro senza previo permesso rientrava in una prassi aziendale dettata dal “comune buon senso” e deduceva, con riguardo alla situazione oggetto di contestazione, che al momento del suo allontanamento operavano più casse e che una tale pausa “non aveva sortito alcun effetto sui 15 clienti presenti, determinando al più un leggero ritardo nelle operazioni”.
La Suprema Corte, tuttavia, adottando un criterio, questa volta di “buon senso”, ha respinto tali deduzioni, rilevando che “la presenza di una pluralità di casse non esclude comunque che il venir meno di una cassa rallentava le operazioni delle altre, sulle quali venivano dirottati i clienti in fila (…) né incide sulla valutazione della negligenza della condotta del dipendente espressa nella sentenza di secondo grado”.
Nell’accertare, poi, l’idoneità della condotta a determinare la rottura del vincolo fiduciario, la Corte ha ritenuto decisiva la peculiare natura delle mansioni di chi operi a tutela di beni che assumono rilievo “pubblicistico”, in cui rientrano quelli di natura bancaria e creditizia, sulla scorta del principio costituzionale afferente alla tutela del risparmio.
Per coloro i quali si occupano di gestione e custodia del denaro, invero, “la giusta causa deve essere apprezzata con riguardo non soltanto all’interesse patrimoniale della datrice di lavoro ma anche, sia pure indirettamente, alla potenziale lesione dell’interesse pubblico alla sana e prudente gestione del credito”.
Sulla base di tale principio, quindi, la Corte di Cassazione ha sottolineato che il rigoroso rispetto delle regole di maneggio del denaro “non può essere sostituito da non meglio specificate regole di buon senso, inidonee ad assicurare la conservazione del denaro della banca e dei clienti”ed ha, così, disposto, a carico del lavoratore licenziato, anche la condanna alla refusione delle spese di lite, per complessivi 3.500 euro.
La pronuncia in commento si colloca sulla medesima scia di un orientamento recentemente espresso, per un caso simile, dalla Corte di Cassazione (si veda la sent. n. 18811 del 31 ottobre 2012) e relativo al licenziamento per giusta causa di un addetto alla vigilanza privata presso un istituto di credito.
In tale ipotesi, la Corte aveva evidenziato che “l’abbandono del posto di lavoro da parte di dipendente cui siano affidate mansioni di custodia e sorveglianza configura (…) una mancanza di rilevante gravità idonea, indipendentemente dall’effettiva produzione di un danno, a fare irrimediabilmente venir meno l’elemento fiduciario nel rapporto di lavoro ed a integrare la nozione di giusta causa di licenziamento, anche in difetto di corrispondente previsione del codice disciplinare, atteso che, nelle ipotesi di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, il potere di recesso del datore di lavoro deriva direttamente dagli artt. 1 e 3 della L. 604 del 1966, norme esprimenti precetti di sufficiente determinatezza”.
In conclusione, visti anche gli spunti offerti dalla recente giurisprudenza commentata, l’orientamento dei giudici di legittimità va nel senso di un maggior rigore richiesto al lavoratore nell’osservanza dei doveri di fedeltà e obbedienza, pena la sanzione del licenziamento per giusta causa.