Con la sentenza n. 9200 del 23 aprile 2014, la Corte di Cassazione ha affermato che, al fine dell’accertamento della responsabilità datoriale per la morte di un dipendente in ragione dello stress lavorativo asseritamente determinante un infarto mortale, è necessario provare la sussistenza di elementi significativi ed univoci attestanti la violazione dell’art. 2087 c.c. da parte del datore di lavoro.
La pronuncia della Suprema Corte trae origine dall’impugnazione della sentenza della Corte d’Appello di Palermo che, in riforma della sentenza del Tribunale, aveva negato il diritto degli eredi del dipendente defunto al risarcimento del danno.
Nel caso di specie, gli eredi del defunto avevano adìto il giudice del lavoro al fine di ottenere la liquidazione del danno subìto sia iure hereditatis, ossia quali eredi del lavoratore, sia iure proprio, ossia nella loro qualità di familiari in ragione della permanente alterazione del rapporto familiare originato dall’improvvisa e definitiva privazione dei legami affettivi, etici e psicologici, integrante, secondo i ricorrenti, il c.d. danno esistenziale. In particolare i ricorrenti deducevano che lo stato di malattia del familiare defunto fosse stato determinato dalle qualità e modalità del lavoro svolto, da considerarsi fattori anche concausali, efficienti e determinanti della cardiopatia ischemica dallo stesso sofferta
La Corte d’Appello, disattendendo la pronuncia di primo grado di accoglimento delle domande degli eredi, ha rilevato la mancanza di elementi probatori idonei ad affermare la violazione dell’art. 2087 c.c. Com’è noto detta norma prevede che “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del datore di lavoro”.
In ogni caso, ed a prescindere dall’omessa individuazione di condotte datoriali integranti violazione della predetta norma, la Corte d’Appello rilevava che comunque l’asserita attività stressante sarebbe stata circoscritta al periodo compreso tra giugno e novembre 1992, ossia circa 2 anni e mezzo prima della morte del lavoratore, sì da escludere la sussistenza del nesso causale tra stress da lavoro e morte, necessario ai fini dell’affermazione della responsabilità del datore di lavoro.
Contro la richiamata pronuncia, gli eredi adivano dunque la Suprema Corte, assumendo, per la prima volta, la sussistenza di uno stato di malattia non conclamata originata dallo stress lavorativo che avrebbe, dunque, determinato la cardiopatia ischemica e poi la morte. Gli Ermellini deducevano in primo luogo – sotto il profilo processuale – che l’asserito stato di malattia non era stato allegato nel ricorso introduttivo del giudizio in commento e che, dunque, non poteva essere dedotto in sede di legittimità.
Ciò posto, la Corte di Cassazione condivideva la valutazione operata dalla Corte territoriale ribadendo dunque, sulla scorta delle argomentazioni prospettate da quest’ultimo, il principio secondo cui, al fine di affermare la responsabilità del datore di lavoro, è necessario allegare e provare specifici inadempimenti ascrivibili allo stesso.