La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 1149 del 21 gennaio 2014, ha affermato che, in tema di mobbing (come pure di demansionamento), il lavoratore non può limitarsi a dedurre di essere stato “vittima” di una serie di condotte mobbizzanti, ma deve dimostrare la sussistenza in capo al datore di lavoro dell’intento persecutorio.
Nel caso di specie il lavoratore, assumendo di aver subito una dequalificazione professionale nonché reiterate azioni di mobbing, chiedeva la condanna della società datrice di lavoro al risarcimento dei danni alla salute, esistenziale, biologico e professionale, patiti in conseguenza dell’asserita illegittima condotta datoriale.
La ricostruzione fornita dal lavoratore è in particolare incentrata sulla descrizione di presunte condotte e comportamenti illegittimi subiti dai numerosi superiori gerarchici avvicendatisi nell’arco dell’intera vita professionale e tali da far evidenziare la volontà di emarginare e discriminare lo stesso lavoratore. Ad avviso del ricorrente, le condotte vessatorie si sarebbero concretizzate, con riferimento ad un arco temporale di circa 15 anni, in trasferimenti di ufficio, assegnazione a mansioni frustranti, emarginazione da parte dei colleghi e soprattutto plurime contestazioni disciplinari, ritenute dal lavoratore mera espressione di un intento persecutorio nei suoi confronti. Sotto quest’ultimo profilo e segnatamente in relazione agli innumerevoli episodi oggetto di contestazioni e sanzioni disciplinari (mai formalmente impugnate), il lavoratore ha fornito, soltanto a distanza di molti anni, una propria versione dei fatti contrapposta a quella della società.
Il Supremo Collegio, condividendo integralmente le argomentazioni svolte dalla Corte d’appello, ha ritenuto non raggiunta la prova del lamentato mobbing, a fronte del comportamento tenuto dalle parti proprio in relazione ai numerosi procedimenti disciplinari che hanno interessato il lavoratore e che, peraltro, secondo la ricostruzione di quest’ultimo, sarebbero stati indicativi della condotta vessatoria asseritamente subita.
Più in dettaglio, nella pronuncia in commento, aderendo alle valutazioni già svolte nel precedente grado di giudizio, vengono valorizzati l’accurata istruttoria disciplinare svolta dalla società in relazione a ciascun episodio contestato – consistita altresì nella raccolta di dichiarazioni scritte di altri dipendenti presenti al momento dei fatti – e la prolungata inerzia del lavoratore, il quale, anche a fronte di gravi accuse, non ha provveduto a contestare, se non a distanza di molti anni, i provvedimenti datoriali. Peraltro, rispetto ad essi, ed alla opposta versione dei fatti sostenuta in giudizio, parte ricorrente non ha fornito alcun valido elemento di prova.
Oltre a ciò è stato valutato come il lavoratore, in relazione agli episodi più gravi quali attacchi verbali e talora anche fisici ai superiori, si sia limitato a respingere gli addebiti senza neppur fornire alcun valido elemento probatorio a sostegno della diversa ricostruzione dei fatti prospettata in giudizio. Pertanto, in base al già noto principio secondo cui è in capo al lavoratore l’onere della prova in tema di mobbing, la Corte di Cassazione non ha ritenuto la successione nel tempo di plurime contestazioni disciplinari di per sé idonea a dimostrare l’intento persecutorio proprio del mobbing.