Ultimo, in ordine d’uscita, tra i sempre più numerosi film dedicati al tema lavoro, “Io Daniel Blake” è un film ricco d’energia: per l’incisività della sua denuncia, per la felice scelta dei personaggi, per l’arguta regia dell’8oenne, ma freschissimo, Kean Loach che con questa opera ha vinto la palma d’oro a Cannes, dieci anni dopo quella conquistata con ‘’Il vento che accarezza l’erba’’.
Il protagonista principale è Daniel, onesto e valido carpentiere (splendidamente interpretato da Dave Johns) che alla soglia dei 60 anni rimane senza lavoro, per problemi di salute al cuore, si scontra con le difficoltà ad ottenere un sussidio d’invalidità e deve affrontare, oltre alla malattia, una impari lotta contro la burocrazia, i funzionari ottusi, le situazioni paradossali (come quando è costretto a dimostrare di avere cercato un lavoro che per motivi di salute non può accettare!).
Daniel affronta un percorso kafkiano, irto di ostacoli, per farsi riconoscere un diritto che la burocrazia ostacola invece che agevolare; in questo percorso (la vicenda è ambientata in Inghilterra ma potrebbe tranquillamente essere ambientata in Italia) incontra Katie (Hayley Squires) madre single in difficoltà economiche con due bimbi da mantenere, e tra i due scatta immediatamente la solidarietà: naturale, spontanea, senza filtri, come avviene spesso tra la gente abituata alle difficoltà. Loach dirige con empatia ma senza sentimentalismi e senza forzare la mano come sarebbe facile fare: usa, come di consueto, l’arma della denuncia, sottolinea più volte l’ipocrisia del sistema che non garantisce il lavoro e tende a scaricare la responsabilità sui lavoratori ma non si limita però alla denuncia e aggiunge la poesia, che rappresenta attraverso alcune situazioni molto toccanti.
Il regista mette in scena la solidarietà fatta perlopiù di piccoli ma fondamentali gesti: solidarietà tra i deboli, che poi si dimostrano tutt’altro che deboli, come Daniel, Katie, e i suoi figli, ma anche quella dimostrata da chi non ha difficoltà economiche ma ne capisce l’impatto, come le donne che gestiscono il banco alimentare, l’impiegata statale che cerca di aiutare Daniel, il direttore del supermercato. Tutte apparizioni brevi ma efficaci e intense.
Ed alla fine è proprio questa solidarietà, che si registra soprattutto tra gli oppressi, l’antidoto più efficace ad un sistema di welfare burocratico e ostile, che allontana invece che accogliere. La solidarietà, l’empatia, la compassione sono quindi, secondo Loach, la leva da cui si può, e si deve, ripartire. Certo c’è da chiedersi quanto questa solidarietà si trovi ancora nella realtà di tutti i giorni. Ken Loach comunque ribadisce la sua fiducia nei più vulnerabili, si spende ancora una volta in loro favore e aggiunge alla sua filmografia un altro gran bel film.