Lo Smart working è legge dello Stato (legge 22 giugno 2017 n. 81) e, al di là dei positivi impatti che avrà sulla vita dei Lavoratori e sull’incremento della competitività delle aziende italiane, sarà probabilmente ricordato come la prima traccia di una rivoluzione annunciata: quella che condurrà ad una diversa definizione della nozione di subordinazione.
Il punto di partenza è noto a tutti: il decreto di riordino delle tipologie contrattuali (d.lgs. n. 81/2015) ha individuato l’argine estremo, il perimetro all’interno del quale, ad oggi, si muove il concetto di lavoro subordinato, imponendo l’applicazione della relativa disciplina a tutte quelle ipotesi in cui vi sia una etero-organizzazione dei tempi e dei luoghi della prestazione lavorativa da parte del datore di lavoro: laddove il Lavoratore non sia libero di auto-determinare tempi e luoghi della propria prestazione lavorativa, il relativo rapporto contrattuale non potrà che essere ascritto alla disciplina del lavoro subordinato. Il tutto in un contesto giurisprudenziale che fatica ad individuare nell’obbligazione lavorativa un impegno a procurare uno specifico fine utile per il datore di lavoro, che al contrario deve accontentarsi del fatto che il proprio dipendente gli metta a disposizione le sue energie lavorative, ed in un quadro regolamentare che vede il CCNL identificare la retribuzione quale corrispettivo di un certo numero di ore di lavoro, e non del risultato che quelle ore di lavoro devono produrre.
Orbene, anche una lettura sommaria della nuova disciplina, chiarisce come il Legislatore, per la prima volta, abbia definitivamente abbandonato questa logica, posto che ha ritenuto compatibile con lo schema del lavoro subordinato l’esecuzione di una prestazione nella quale il dipendente auto-determini tempi e luoghi del proprio operare e si vincoli non al rispetto di un determinato orario di lavoro, ma al raggiungimento di uno specifico obiettivo.
Lo Smart working non è un contratto di lavoro a sé, ma una mera modalità di esecuzione della prestazione lavorativa subordinata; il luogo di lavoro non è identificato dal datore di lavoro ma dal dipendente, il quale lo sceglierà sulla base della formazione ricevuta e delle specifiche esigenze legate alla prestazione ed alla propria vita privata; l’orario di lavoro viene in rilievo non quale metro di verifica della esattezza dell’adempimento, ma solo quale strumento di tutela della integrità psicofisica della Lavoratore, che gode come tutti i dipendenti del diritto alla disconnessione.
La compatibilità – normativamente tipizzata – tra queste previsioni e lo schema della subordinazione costituisce il vero germe di novità che lo Smart working inietta nel sistema, perché possiamo finalmente archiviare lo sterile dibattito sorto per effetto delle presunzioni introdotte dalle giurisprudenza e codificate dalla Fornero come un incidente di percorso e, liberato il campo d’indagine, identificare una nozione di lavoro subordinato che sia finalmente funzionale alla implementazione di quel modello di azienda che il programma Industria 4.0 preconizza. Una nozione di subordinazione incentrata sull’obbligo di collaborazione per la produzione di uno scopo utile al perseguimento dei fini dell’Impresa, che veda quali attori principali dipendenti i quali, ognuno per la sua parte, sappiano coinvolgersi reciprocamente intorno al raggiungimento di scopi comuni.
E’ questa la vera novità che può leggersi nel testo normativo, e non il fatto che si possa lavorare da un luogo collocato fuori dall’azienda (in fondo, per far questo, bastava qualche modifica di dettaglio alla disciplina del telelavoro): e questa è una vera rivoluzione, la più importante che questo Paese stava aspettando.
di Andrea Bonanni Caione
Managing Partner Pescara – LabLaw Studio Legale