Per molti, adesso che il nuovo DPCM ha diviso l’Italia in zone, lo smart working farà sempre più parte della realtà lavorativa. Ma al di là della stretta, strettissima attualità, come sta andando e soprattutto com’è andato finora lo smart working in Italia? Come si è verificato questo balzo da un presenzialismo in azienda, a volte eccessivo, al lavorare a distanza e per obiettivi? E come ha influito sui lavoratori italiani?
A fotografare la realtà, come d’altra parte da diversi anni a questa parte, è l’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano che martedì scorso ha presentato in uno streaming online (che abbiamo seguito) i suoi dati relativi a questo 2020 nel convegno online “Smart working il futuro del lavoro oltre l’emergenza”.
Oltre 6 milioni e mezzo di lavoratori in smart working. Quello che sorprende subito sono i numeri: se nel 2019 a lavorare in modalità smart erano 570 mila persone, con il 58% delle grandi imprese, il 12% delle PMI e il 16% nella Pubblica Amministrazione, nel 2020, o meglio durante l’emergenza, si è passati a più di 6 milioni e mezzo (6 milioni 580 mila per l’esattezza), ben 1/3 di tutti i lavoratori dipendenti. A onor di cronaca ricordiamo, infatti, che la ricerca fotografa il lavoro dipendente e non quello freelance che è smart per definizione.
Tornando ai numeri, già nel 2019, c’era stato un incremento del 20%, ma quello a cui stiamo assistendo ha un portata inattesa, o almeno qualcosa che a inizio anno, e per i motivi che sappiamo, non ci saremmo certo aspettati. Di questi oltre 6 milioni e mezzo, c’è da considerare che sono suddivisi così: 2,11 milioni nelle grandi imprese, 1,13 milioni nelle PMI, 1,5 milioni nelle microimprese (sotto i 10 dipendenti) e ben 1,95 milioni di lavoratori agili nella PA.
Lo smart working è entrato in modo dirompente nella PA. Quest’ultimo settore, rispetto all’anno scorso, vede al momento il 94% dei suoi lavoratori in modalità smart. Come ha precisato Fabiana Dadone, ministro per la Pubblica Amministrazione intervenendo alla presentazione online del rapporto, “la PA ha avuto l’occasione di cogliere la palla al balzo e il concetto di modalità diversa è entrato in essa in maniera dirompente”.
Cresciuto anche l’impiego nelle PMI con il 58% di smart worker mentre le grandi imprese in parte l’adottavano (58%) e adesso lo fanno nel 97% dei casi. E questo, come ha spiegato Mariano Corso, responsabile scientifico Osservatorio Smart Working presentando la ricerca, è dovuto al fatto che in fase di emergenza lo smart working è stato particolarmente spinto e molto semplificato dal punto di vista dell’applicazione.
Anche senza accordi individuali. Ricordiamo infatti che in questa fase le aziende possono attuare tale modalità anche in assenza di accordi individuali. A favorire infatti lo smart working sono stati i DPCM del 23 febbraio e dell’8 marzo che hanno introdotto una procedura semplificata per l’adozione del lavoro agile che derogava alcuni aspetti previsti dalla legge n°81/2017. Anche se, come ha ricordato Umberto Bertelè,Chairman degli Osservatori Digital Innovation, Politecnico di Milano “Lo smart working è molto di più dell’innovazione tecnologica come si sta vedendo adesso. Siamo oltre l’emergenza? Temo purtroppo di no”.
Tornando alla ricerca – che ha coinvolto sia i referenti delle organizzazioni attraverso sondaggi on line, workshop di confronto e interviste di approfondimenti sui progetti, sia i lavoratori attraverso un sondaggio a loro dedicato – quanto alle grandi imprese emerge che sull’adozione hanno ovviamente influito il settore e la tipologia. Meno le imprese nel retail e nel fatturiero, mentre nel finance e nell’ITC il lavoro da remoto è stato applicato in modo significativo fino ad arrivare, in alcuni casi, a quasi tutti i dipendenti. Ed è stato più “facile” applicarlo per quelle aziende che avevano già avviato iniziative in quest’ottica.
A lavorare da remoto anche operatori di call center e sportello. È stato esteso anche a figure prima escluse perché si pensava che le loro attività fossero incompatibili con esso. Tra queste per esempio gli operatori di call center, che nel 33% delle grandi imprese hanno lavorato da remoto per la prima volta, o gli operatori di sportello, che il 21% delle organizzazioni ha fatto lavorare da remoto riconvertendo una parte delle attività e rendendo digitale il canale di comunicazione con i clienti. Il 17% delle organizzazioni ha coinvolto per la prima volta anche operai e manutentori specializzati digitalizzando l’accesso a macchinari anche da remoto e limitando l’accesso degli operatori a laboratori e impianti al minimo indispensabile.
Impreparazione tecnologica. Se da un lato lo smart working è diventato più democratico, nel senso di più allargato, la sua applicazione però ha dovuto fare i conti con la tecnologia mettendo a nudo l’impreparazione di molte organizzazioni. Più di due grandi imprese su tre hanno dovuto aumentare la dotazione di pc portatili e altri strumenti hardware e di strumenti per poter accedere da remoto agli applicativi aziendali; tre PA su quattro hanno incoraggiato i dipendenti a usare i dispositivi personali; il 50% delle PMI non ha potuto operare da remoto. Quanto a PA e tecnologia, la seconda è stata un vero e proprio tallone d’Achille.
Il tallone d’Achille della PA: molti lavoratori con strumenti personali. Il 42% degli enti ha infatti introdotto iniziative di ampliamento della dotazione hardware e il 49% della dotazione di software, mentre 3 PA su 4 hanno attivato politiche di BYOD acronimo che sta per “Bring Your Own Device” ossia porta il tuo dispositivo per lavorare, scelta dovuta ai vincoli sulla possibilità di spesa e all’arretratezza tecnologica. C’è da rilevare che chi si è comportato in tal modo è perché non aveva strumenti aziendali adeguati e i lavoratori hanno dovuto organizzarsi con i propri che sono stati molto frequenti nel periodo del primo lockdown.
Ciò non ha ovviamente aiutato a livello di sicurezza, aprendo il fianco ad attacchi informatici. A ogni modo, gli strumenti che sono stati usati per lavorare a distanza sono state le applicazioni per effettuare web conference e chat (60%), i sistemi per accedere ai dati in modo sicuro da remoto (46%) e le dotazioni hardware come i PC portatili, la cui diffusione è aumentata per il 29% delle PA.
Non poche dunque le criticità legate allo smart working. Tra queste per esempio la difficoltà a separare i tempi dedicati al lavoro da quelli alla vita privata (29%) e a mantenere un corretto work-life balance (28%). Senza poi dimenticare il senso di isolamento (29%), non tanto dai colleghi del proprio team di lavoro con cui c’è stato anzi un intensificarsi delle interazioni, quanto piuttosto verso l’organizzazione nel suo insieme.
Le stesse grandi imprese hanno evidenziato diverse difficoltà oltre che nel constatare il delicato equilibrio lavoro-vita privata, anche per la disparità nel carico di lavoro delle persone. Per alcuni si è trattato infatti di dover far fronte a una mole di lavoro significativa per altri invece si è sensibilmente ridotta. E questo è probabilmente dovuto dovuto all’impreparazione dei manager che, come ha ammesso il 33% delle grandi imprese, non sono stati in grado di gestire questa nuova modalità di lavoro. Per il 31% si è anche constatato come le competenze digitali delle persone fossero piuttosto limitate.
Nelle PA le maggiori criticità hanno riguardato lo scarso livello di dematerializzazione e digitalizzazione dei processi e problemi legati alle tecnologie, spesso inadeguate o in numero insufficiente per garantire lo svolgimento delle attività da remoto (46%), a cui si uniscono le limitate competenze digitali delle persone (31%). Anche la disparità nel carico di lavoro è considerato un problema rilevante (39%), seguito dalla difficoltà dei dipendenti nel mantenere un equilibrio tra vita privata e lavorativa (33%).
I benefici dello smart working. Lo smart working non è stato però solo critico, tra i benefici riscontrati, il miglioramento delle competenze digitali dei dipendenti (per il 71% delle grandi imprese e il 53% delle PA), il ripensare i processi aziendali (59% e 42%) e l’abbattere barriere e pregiudizi sul lavoro agile (65% delle grandi imprese), segnando una svolta irreversibile.
“L’applicazione dello smart working è una incredibile iniezione di resilienza che ha consentito di tutelare la salute e preservare una parte dell’economia. Senza il digitale ii sarebbero stati peggiori”, ha precisato Mariano Corso. “Ora è necessario ripensare il lavoro per non disperdere l’esperienza di questi mesi e per passare al vero e proprio Smart Working, che deve prevedere maggiore flessibilità e autonomia nella scelta di luogo e orario di lavoro, elementi fondamentali a spingere una maggiore responsabilizzazione sui risultati. Bisogna mettere al centro le persone con le loro esigenze, i loro talenti e singolarità, strutturando piani di formazione, coinvolgimento e welfare che aiutino le persone ad esprimere al meglio il proprio potenziale”.
La ricerca si è concentrata anche sulla cosiddetta fase 2 della gestione dell’emergenza quando dal maggio scorso, molti lavoratori sono tornati in ufficio, riadattando spazi e orari per mantenere la distanza e scegliendo una modalità di lavoro ibrida, ossia che contemplasse la presenza e il lavoro da remoto. A settembre il numero complessivo di smart worker è sceso a quota 5,06 milioni. In media, nelle grandi aziende i dipendenti hanno lavorato da remoto 2,7 giorni a settimana, 1,2 giorno nel settore pubblico.
Per facilitare il rientro in sicurezza le principali iniziative sono state l’introduzione di regole e linee guida sull’utilizzo degli ambienti la definizione di un piano di rientro delle persone con turni per i team di lavoro e l’introduzione di segnaletica per orientare i flussi e incentivare comportamenti sicuri. Il 72% delle grandi aziende e il 46% delle PA ha lasciato autonomia riguardo al numero di giornate di lavoro agile, ma con procedure per non superare il limite di persone imposto dalla necessità di distanziamento. Questa esigenza in particolare ha portato a interventi sugli ambienti di lavoro, come postazioni più distanziate o separate (52% grandi imprese e 50% PA) o la chiusura di alcune aree della sede (45% e 13%). Per evitare assembramenti sono stati rimodulati gli orari di ingresso e uscita (34% e 25%).
Quanto al cosiddetto new normal, va da sé che lo smart working è entrato a pieno titolo nel modo di lavorare. Oltre a ripensare gli ambienti, tra le varie azioni che verranno messe in campo c’è l’aumentare le giornate in cui è possibile lavorare da remoto. Così come allargare la platea degli smart worker, estendendolo anche a figure che prima non erano coinvolte, e agire sull’orario di lavoro.
“Nell’emergenza abbiamo acquisito rapidamente consapevolezza dei vantaggi del lavoro agile e abbiamo avuto l’opportunità di sperimentarlo su vasta scala, pur se in una forma atipica”, ha affermato Fiorella Crespi, Direttore dell’Osservatorio Smart Working. “Il rischio, però, è di trattarlo come un obbligo normativo o una misura temporanea ed emergenziale: si tratta invece di un’occasione storica che ci porterà verso un ‘New Normal’, con benefici non soltanto nel lavoro, ma sull’intero ecosistema di servizi, città e territori”.