È un’espressione che abbiamo coniato noi Italiani – sebbene sia evidentemente di forma inglese – e che nel periodo di lockdown abbiamo anche usato impropriamente. Parliamo dello smart working, termine che gli Anglosassoni in realtà non usano, e che durante l’emergenza Coronavirus abbiamo adottato come sinonimo di telelavoro o lavoro da remoto, anche se di fatto non è così. Ma al di là delle accezioni linguistiche, quanto è vera l’affermazione che aiuti in particolare le donne? E quando invece diventa una barriera, un ostacolo alla carriera e in molti casi anche un modo per “non rientrare” più al lavoro?
Per le donne lo smart working non è stato facile. I dati fotografano una realtà che forse non è come ci si aspetterebbe. Stando a una ricerca condotta da Valore D, associazione di imprese impegnate per l’equilibrio di genere, dal titolo #IOLAVORODACASA, tale modalità non ha aiutato in particolare le donne, specie in un momento di convivenza familiare forzata. Se lavorare da casa richiede una postazione di lavoro tranquilla e isolata oltre a una grande disciplina personale e degli orari, 1 donna su 3, dice la ricerca, nel periodo del lockdown si è trovata a lavorare più di prima e non riesce, o fa fatica, a mantenere il cosiddetto work-life balance, ossia a conciliare lavoro e vita, in questo caso essenzialmente domestica. Per gli uomini, la situazione è diversa: il rapporto è 1 su 5. E questo perché, come ci spiega Ella Marciello, direttrice creativa di “Ribelli Digitali” e coautrice del libro “Smart working” scritto da Cristiano Carriero, edito da Hoepli: “Oltre al lavoro, le donne sono state incaricate tacitamente di occuparsi della gestione della casa, ma anche dei figli, con annessa la didattica a distanza che richiede un enorme impegno”.
Lo smart working genera discriminazioni tra le donne. Una situazione che, con la ripresa dell’attività lavorativa ma con le scuole chiuse che non si sa quando riapriranno, rischia di peggiorare ancora di più. Come evidenziano i dati della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro che mostrano come lo stesso smart working ha creato nella fase 1 e creerà anche in questa fase 2 delle discriminazioni tra le donne stesse. La ricerca, che si è focalizzata sulle madri, evidenzia infatti la differenza tra chi può lavorare in smart working e di solito occupa posizioni più alte guadagnando di più e chi invece non solo non può optare per questa soluzione ma guadagna anche meno. Tra le due categorie, inoltre, la seconda fa fatica a rientrare. Si tratta delle donne meno qualificate che infatti dovranno necessariamente recarsi in sede e contemporaneamente accudire in prima persona i figli con meno di 15 anni (per loro infatti il diritto allo smart working previsto dal Decreto Rilancio non vale granché). Queste sono 1 milione 426 mila lavoratrici, ben il 48,9% del totale, che percepisce uno stipendio inferiore ai mille euro netti. Per loro la fase 2 potrebbe voler dire rinunciare al lavoro o dovere comunque prendere un part time proprio per l’impossibilità di conciliare tutto.
La campagna #iorestoacasa.“Tutte cose”, spiega Marciello “che abbiamo provato a raccontare tramite una campagna sui social media dal titolo #iorestoacasa realizzata da Hella Network, un network di professioniste, per denunciare la condizione femminile proprio in questo periodo in cui le donne sono state costrette a lavorare di più in casa e che ha avuto anche una valenza premonitrice di disoccupazione”. La campagna, che ha avuto più di un milione di visualizzazioni, ha utilizzato l’immagine stereotipata delle donne nella pubblicità degli anni ‘50: sorrisi finti in situazione quotidiane accanto a frasi non proprio piacevoli da leggere come per esempio “#iorestoacasa perché sono economicamente sacrificabile”. O ancora “#iorestoacasa ad ammirare la mia laurea in cornice”. “L’idea, nata dal lavoro mio e di Flavia Brevi come copywriting sotto l’art direction di Isotta Dell’Orto, era di creare una scollamento tra l’espressione sorridente e stereotipata dei soggetti, la familiarità dell’hashtag (#iorestoacasa era anche l’invito del Governo, ndr) e quello che si leggeva sotto l’immagine”.
I pregiudizi legati allo smart working. “Durante la stesura del libro, ho intervistato un campione di 50 donne”, continua Ella Marciello “per capire quale fosse l’impatto dello smart working e per molte di loro è una scelta che viene fatta per conciliare l’essere madri con l’essere professioniste. E questo fa entrare in gioco diversi pregiudizi: quello che vuole le donne meno in grado di occuparsi intellettualmente di quello di cui si occupavano prima, quello che vuole la possibilità, così, di occuparsi “senza sforzo” delle faccende domestiche (come se fosse in automatico legato al genere), quello che vuole lo smart working come inconciliabile con la carriera. E questo dimostra come la percezione del lavoro da remoto sia ancora enormemente indietro rispetto ai paesi anglosassoni”.
La scelta dello smart working. Quando invece lo smart working potrebbe essere e dovrebbe essere una scelta indipendentemente dal genere. “Significa lavorare per obiettivi” precisa Marciello “e dare la possibilità alle donne, così come a tutti, di capire davvero quali sono le proprie caratteristiche, i propri obiettivi e la propria motivazione. Ognuno può organizzare in maniera autonomia, e compatibilmente con il lavoro che deve fare con gli altri, la propria giornata. Sapere di poter andare a prendere il proprio figlio quando esce da scuola e comunque lavorare cercando di rispettare una consegna sicuramente aiuta di certo le madri che non devono correre a destra e a manca né delegare questo o altre cose, ma in generale è una modalità per vivere meglio e deve essere una scelta”.