Merita una riflessione la recente sentenza della Cassazione, n. 5280 del 4 marzo 2013 la quale, riprendendo i principi elaborati dalla giurisprudenza, ha ribadito quanto è possibile ritenere sussistente la giusta causa di licenziamento.
In sintesi, la Corte ha affermato che quella di “giusta causa” di licenziamento è una nozione legale e non contrattuale e che il giudice, nel valutare se la condotta contestata al lavoratore sia così grave da legittimarne il recesso, tiene sì conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi (art. 30, c. 3 L. 183/2010), ma non è vincolato a tale previsioni che individuano simili azioni tra quelle punibili con il licenziamento.
La pronuncia in commento trae spunto dal licenziamento per giusta causa irrogato ad un lavoratore colpevole di essere venuto alle mani con un collega sul posto di lavoro.
Il lavoratore aveva impugnato il recesso, ritenendo sproporzionata la sanzione del licenziamento rispetto alla gravità delle sue azioni. Si rivolgeva, quindi, al Giudice del lavoro il quale, in accoglimento del ricorso, condannava l’azienda alla reintegrazione nel posto di lavoro del medesimo lavoratore.
Successivamente, il giudizio di primo grado veniva ribaltato dalla Corte di Appello, in quanto veniva accertato che l’articolo 221 del Contratto Collettivo del settore del Terziario, applicato al caso di specie, sanziona con il licenziamento per giusta causa “il diverbio litigioso seguito da vie di fatto, in servizio fra dipendenti, che comporti nocumento o turbativa al normale esercizio dell’attività aziendale”.
Il lavoratore veniva, pertanto, condannato a restituire all’azienda il risarcimento ottenuto, oltre al pagamento delle spese processuali.
La questione viene nuovamente rimessa in discussione dalla Cassazione: a suo avviso, la Corte d’appello non avrebbe effettuato una valutazione specifica della congruità e proporzionalità della sanzione disciplinare irrogata, non avendo operato una precisa e puntuale ricostruzione delle circostanze del fatto. A parere della Cassazione, contrariamente a quanto sostenuto dalla Corte, l’elemento -che la Corte stessa riferisce essere sfornito di prova – relativo alle modalità con le quali ha avuto inizio il contrasto fisico tra i due lavoratori, è di fondamentale importanza al fine di stabilire la ricorrenza, in concreto, degli elementi della giusta causa: infatti, altro è passare alle vie di fatto per difendersi dall’aggressione fisica subita dall’antagonista, altro è farlo per primi per aggredire l’altro fisicamente. Pertanto, alla luce dei principi elaborati dalla giurisprudenza in materia di licenziamento per giusta causa, la presente sentenza ha concluso che la valutazione in ordine alla legittimità del licenziamento disciplinare di un lavoratore cui si applichi l’art. 221 CCNL per i dipendenti da aziende del terziario, motivato dalla ricorrenza dell’ipotesi del diverbio litigioso seguito da vie di fatto in servizio anche fra dipendenti, che comporti nocumento o turbativa al normale esercizio dell’attività aziendale – contemplata dall’indicata norma contrattuale, a titolo esemplificativo, fra le ipotesi di licenziamento per giusta causa – deve essere effettuata attraverso un accertamento in concreto da parte del giudice del merito della reale entità e gravità del comportamento addebitato al dipendente nonché del rapporto di proporzionalità tra sanzione e infrazione (che non può non basarsi sulla ricostruzione della condotta fin dal momento immediatamente precedente e da quello iniziale dell’avvenuto passaggio alle vie di fatto).
Ciò, ha specificato il Giudice, vale sia qualora venga riscontrata l’astratta corrispondenza del comportamento del lavoratore alla fattispecie tipizzata contrattualmente, sia a maggior ragione ove manchi una precisa corrispondenza tra i fatti addebitati e le ipotesi esemplificative specifiche elencate dal contratto collettivo.
In altri termini, la sentenza ha espressamente affermato che, in materia di licenziamento disciplinare, la valutazione della congruità della sanzione espulsiva spetta unicamente al giudice, il quale dovrà accertare in concreto se la specifica mancanza commessa dal dipendente, considerata e valutata non solo nel suo contenuto obiettivo ma anche nella sua portata soggettiva, specie con riferimento alle particolari circostanze e condizioni in cui è stata posta in essere, ai suoi modi, ai suoi effetti e all’intensità dell’elemento psicologico dell’agente, risulti obiettivamente e subiettivamente idonea a ledere in modo grave la fiducia che il datore di lavoro ripropone nel proprio dipendente e tale, quindi, da esigere la massima sanzione espulsiva.
Tale accertamento dovrà essere effettuato indipendentemente dal fatto che la disciplina collettiva configuri in astratto una simile condotta tra quelle riconducibili a giusta causa o giustificato motivo di recesso.
Alle stesse conclusioni è pervenuta la recente ordinanza del Tribunale di Ravenna, del 18 marzo 2013 la quale, ha affermato che, ai fini della scelta della tutela reale o indennitaria nel licenziamento disciplinare, ai sensi del novellato art. 18 Stat. lav., il Giudice non può guardare soltanto al mero fatto ipotizzato e contestato dal datore di lavoro, ma deve guardare allo stesso fatto in relazione alla nozione di giusta causa. Così, infatti, si legge nella pronuncia “… Anche perché è del pari evidente che, prescindendo dalla valutazione del comportamento alla luce della sua qualificazione giuridica (oggettiva e soggettiva), si autorizzerebbe ogni sorta di contestazione; ovvero la contestazione di qualsiasi sorta di fatto, anche “di pezzi di fatto” giuridico, o di fatti con scarso o nessuno rilievo giuridico e disciplinare…”. Quindi, ad avviso di tale Giudice, la modulazione del regime di tutela, reale o indennitaria, da applicare in presenza di un licenziamento disciplinare dichiarato illegittimo non può prescindere neppure a seguito dell’intervento riformatore del citato art. 18, dal principio di proporzionalità che dovrà essere effettuato in concreto dal Giudice.