È innegabile che parte importante della evoluzione normativa alla quale stiamo assistendo in questi anni abbia ad oggetto la ricerca di strumenti di tutela capaci di estendere, al di fuori dei propri confini naturali, le guarentigie che da sempre assistono il solo lavoratore subordinato. Nel corso dei primi sessant’anni di Repubblica si è infatti consolidata una visione (politica, normativa e giurisprudenziale) che, fondata sulla pretesa maggior debolezza sociale ed economica del lavoratore subordinato rispetto a quello autonomo, ha giustificato un maggior grado di protezione in favore del collaboratore “dipendente”, che si è manifestato sia individuando precisi argini al potere datoriale di gestione del rapporto di lavoro (tutele in ipotesi di illegittima risoluzione del rapporto, disciplina delle mansioni etc.), sia identificando una serie di garanzie di carattere economico, connesse al verificarsi di particolari eventi della vita (quali malattie ed esigenze familiari e personali), sia ancora enucleando specifiche situazioni soggettive attive giuridicamente tutelabili (diritto alle ferie, allo studio etc.).
Ogniqualvolta la Corte costituzionale sia stata chiamata a giudicare di tale evidente disparità di trattamento, la giustificazione è sempre stata individuata nella posizione di particolare soggezione in cui versa il lavoratore subordinato, legato in tutto e per tutto alle fortune del suo datore di lavoro, per il quale è occupato in via esclusiva e dal quale attinge l’unica forma di sostentamento: quella retribuzione che la stessa Carta costituzionale identifica quale strumento elettivo mediante il quale il Lavoratore assicura a sé stesso ed alla propria famiglia una esistenza libera e dignitosa. Ed è di non poca importanza notare come, leggendo il precetto costituzionale, solo alla retribuzione il Costituente abbia assegnato un ruolo così importante, tale da distinguerla sotto il profilo formale e sostanziale da tutti gli altri corrispettivi ritraibili dall’esecuzione di una prestazione lavorativa (tant’è che anche quando si declina il tema della parità di genere, è alla parità di retribuzione a parità di lavoro che la Carta fa riferimento per individuare il parametro di riferimento).
Il tema è sicuramente molto ampio, ed eccede, per contenuti, le attitudini espositive di questo contributo: ai fini che qui interessano, sia concesso dar per scontata l’affermazione che la Carta costituzionale, un po’ per la sua logica interna (chiara essendone l’impostazione sociale), un po’ in virtù del contesto (ancora una volta sociale) nel quale è stata interpretata, si è tradotta in un percorso normativo caratterizzato da una innegabile predilezione per la figura del Lavoratore subordinato.
Questo iter interpretativo è stato senza ombra di dubbio messo in crisi dall’evoluzione sociale degli ultimi anni, caratterizzata dall’accesso al mercato di una moltitudine di collaboratori autonomi, ai quali l’Impresa demanda l’esecuzione di compiti non dissimili da quelli svolti dai lavoratori subordinati, con modalità che, in molti casi, appaiono sovrapponibili. Può ritenersi che sia ormai emersa una particolare categoria di lavoratore autonomo, che svolge la propria attività non in favore di altre persone ma ad esclusivo beneficio di imprese. Molte volte a favore di una sola impresa (che ne assorbe la totalità della propria naturale capacità lavorativa), ma in ogni caso sempre in una posizione di soggezione, discendente sia dalla modestia dei corrispettivi complessivamente maturati che dalla assenza di tutele in ipotesi di illegittima risoluzione del rapporto. È il c.d. “popolo delle partite iva” al quale un noto comico pugliese vede condannare chi rinuncia alla tranquillità del posto fisso, in un fortunato film che stigmatizza i vizi dei dipendenti pubblici italici.
La consistenza di questo fenomeno sociale è tale da non poter più essere definita marginale; tant’è che, tornando all’affermazione di apertura, si coglie un trend legislativo ormai ben definito, che si muove nell’ottica di colmare questo gap normativo, con l’obiettivo di contrastare l’utilizzo a fini elusivi dello schema contrattuale del lavoro autonomo. Ve ne è traccia evidente nel d.lgs. n. 81/2015, laddove si disciplinano le cc.dd. “collaborazioni organizzate dal committente”, prevedendo che al verificarsi di determinate condizioni, al rapporto debba necessariamente darsi la disciplina del lavoro subordinato ove anche non sia questa la tipologia negoziale adottata dalle parti. Pare muoversi in quest’ottica anche il c.d. “jobs act lavoro autonomo”, che prevede l’entrata in vigore in via strutturale dell’indennità di disoccupazione Dis Coll per i collaboratori e l’estensione agli iscritti alla gestione separata Inps della tutela relativa alla maternità, agli assegni al nucleo familiare e alla malattia in caso di degenza ospedaliera.
Il percorso di adeguamento delle norme al mutato contesto sociale è tutto da scrivere, ma si è sicuramente dinanzi ai primi tasselli di un programma che col tempo non potrà che divenire sempre più ampio, anche perché non bisogna dimenticare che, se è vero che nel paradigma costituzionale al lavoro subordinato è assegnato un ruolo preminente, è altrettanto vero che compito della Repubblica è quello di tutelare il lavoro “in tutte le sue forme ed applicazioni”. E non si tratta, ovviamente, di elidere il lavoro autonomo dagli schemi contrattuali in astratto utilizzabili, quanto, più correttamente, di assegnare medesima tutela a situazioni di fatto sostanzialmente coincidenti.
di Andrea Bonanni Caione
Managing Partner Pescara – LabLaw Studio Legale