Il mero requisito dell’età anagrafica del lavoratore non può giustificare l’applicazione di un contratto di lavoro, come quello “a chiamata”, più pregiudizievole rispetto ad un ordinario contratto di lavoro a tempo indeterminato: è questo l’importante principio di diritto espresso dalla Corte d’Appello di Milano con la sentenza dello scorso 15 aprile 2014.
Nel caso di specie, una nota catena internazionale operante nel settore dell’abbigliamento aveva assunto nel 2010 un giovane magazziniere con contratto di lavoro a chiamata a tempo determinato (successivamente trasformato a tempo indeterminato), specificando nel contratto che l’assunzione avveniva a fronte del fatto che il dipendente aveva meno di 25 anni ed era disoccupato. Nel 2012, la Società interrompeva le chiamate del dipendente e gli comunicava che, avendo egli compiuto 25 anni di età, il rapporto di lavoro doveva considerarsi cessato.
Il lavoratore ricorreva avanti il Tribunale del Lavoro di Milano lamentando la natura discriminatoria del comportamento tenuto dalla Società e chiedendo al Giudice di prime cure di accertare e dichiarare la sussistenza di un ordinario rapporto di lavoro a tempo indeterminato tra lui e l’ex datrice di lavoro. In primo grado le doglianze del lavoratore non trovavano accoglimento. Al contrario la Corte di Appello di Milano, investita del gravame, ha accolto il ricorso del magazziniere, ordinando al datore di lavoro di cessare la condotta discriminatoria e condannando quest’utlimo a riammettere il lavoratore nel posto di lavoro (oltre che a corrispondergli circa 15.000 euro a titolo di risarcimento del danno).
Come noto, il lavoro intermittente (c.d. “lavoro a chiamata” o “job on call”) è un rapporto di lavoro subordinato, a tempo determinato o indeterminato, mediante il quale un lavoratore si pone a disposizione di un datore di lavoro che ne può utilizzare la prestazione lavorativa solo quando lo stesso ne abbia effettivamente bisogno. Al fine di disciplinare (e limitare) l’utilizzo di tale tipologia contrattuale nel nostro ordinamento, l’art. 34 del D. Lgs n. 276/2003 ha previsto che il contratto di lavoro a chiamata possa essere concluso in via esclusiva (i) per lo svolgimento di prestazioni lavorative di carattere discontinuo o intermittente, (ii) per periodi predeterminati nell’arco della settimana, del mese o dell’anno e (iii) in ogni caso con soggetti che abbiano determinati requisiti di età anagrafica (nel periodo in cui è stato assunto il ricorrente, la normativa vigente prevedeva la possibilità di concludere tale contratto con soggetti con meno di 25 anni di età o più di 45 anni di età).
Ebbene, la Corte d’Appello di Milano, con la sentenza in commento, ha ritenuto che la disposizione in commento contrasti con il principio di non discriminazione dei lavoratori a cui si ispira l’ordinamento comunitario (richiamando al riguardo anche l’art. 6 della Direttiva 2000/78), secondo cui eventuali disparità di trattamento in ragione dell’età sono ammesse se oggettivamente e ragionevolmente giustificate nell’ambito del diritto nazionale da una finalità legittima e se lo strumento utilizzato non sia sproporzionato rispetto alla finalità da realizzare. Detti requisiti non sarebbero presenti, ad avviso della Corte, nella disciplina del contratto di lavoro intermittente posta dal legislatore italiano, il quale si è limitato ad introdurre un trattamento differenziato che trova fondamento esclusivo nell’età del lavoratore, senza richiamare alcuna altra condizione soggettiva (quale, ad esempio, lo stato di disoccupazione protratto per un certo periodo di tempo, l’iscrizione alle liste di mobilità o l’assenza di formazione professionale).
Ad avviso dei Giudici, pertanto, il mero requisito dell’età, non può giustificare l’assunzione di un lavoratore con un contratto di lavoro pacificamente più pregiudizievole per le condizioni che lo regolano (quale il contratto a chiamata) rispetto ad un ordinario contratto a tempo indeterminato, in quanto la discriminazione che si determina rispetto a coloro che hanno più di 25 anni non trova alcuna ragionevole ed obiettiva motivazione. Analogamente, ha precisato la Corte “nessuna ragionevole giustificazione è ravvisabile nel fatto che, per il solo compimento del 25° anno, il contratto debba essere risolto”.
In merito poi al tema dell’applicabilità, nel nostro ordinamento, del diritto dell’Unione Europea, la sentenza in commento richiama un principio affermato dalla Corte di Giustizia, secondo cui il divieto di discriminazione, in quanto specificazione di un diritto di eguaglianza che esiste indipendentemente dalle direttive, “vive di una vita propria che prescinde dai comportamenti omissivi o attuativi degli Stati membri”. Conseguentemente, proprio a fronte della natura precisa ed incondizionata di tale principio comunitario, discenderebbe la logica conseguenza che lo stesso possa spiegare i propri effetti in ambito nazionale ed essere invocato anche dai privati nei confronti di altri privati.