In Italia le politiche del lavoro sono storicamente sbilanciate a favore delle cosiddette politiche passive, ossia, quelle di sostegno economico in caso di perdita temporanea o definitiva del lavoro. Le politiche attive che hanno lo scopo di favorire la ricollocazione delle persone sono ancora la cenerentola del nostro welfare. Spendiamo per queste attività 4,9 miliardi l’anno, di cui una parte consistente copre il costo dei Centri per l’impiego e il resto vanno in contributi e agevolazioni per le assunzioni. In Germania, giusto per fare il solito paragone, si spendono 24 miliardi in politiche attive e ci sono 120 mila operatori impegnati. Il Jobs Act vuole cambiare il nostro sistema puntando decisamente sulle politiche attive. In che modo e con quali aspettative ce lo spiegano Cristina Calabrò e Rossella Fasola, due importanti manager di Randstad Italia.
Le politiche attive del lavoro sono ad una svolta. Il Jobs Act prevede un suo potenziamento grazie anche al coinvolgimento diretto delle Agenzie per il Lavoro. Ci sarà un sistema misto pubblico-privato ispirato ad una logica di risultato, ossia verrà riconosciuto un premio economico solo alla struttura che avrà effettivamente collocato un disoccupato. Siamo finalmente alla vigilia di un radicale cambiamento delle politiche di welfare in Italia?
Siamo indubbiamente ad una svolta nelle politiche attive. Nel Jobs Act, anche se siamo in attesa dei decreti delegati, è previsto un potenziamento delle attività pubbliche finalizzate alla ricollocazione delle persone che prevede un coinvolgimento diretto delle Agenzie per il lavoro in una logica proficua di collaborazione tra pubblico e privato. Deve dire, tuttavia, che in questi anni abbiamo già realizzato sul campo e in collaborazione con diverse Regioni e realtà locali iniziative di politiche attive con riscontri e risultati molto positivi. Il Jobs Act metterà a sistema tutto questo con l’obiettivo di valorizzare quando di buono già è stato fatto e sperimentato. Immagino e auspico, a questo scopo, un ruolo attivo della neo Agenzia Nazionale per l’Impiego che dovrà avere tra i suoi compiti quello di omogeneizzare le politiche attive su tutto il territorio nazionale, in modo da superare la frammentazione delle regole e delle prassi presente oggi tra Regione e Regione standardizzando le regole e rimuovere, così, un freno al pieno sviluppo delle politiche attive nel nostro Paese.
Le politiche attive prevedono diverse fasi, tra cui quella principale è indubbiamente la ricollocazione della persona presa in carico. Prima, però, c’è un lavoro di preparazione molto importante. Il sistema prefigurato sarà molto orientato alla logica della primialità collegata alla collocazione. Vi convince questo modello?
La logica della premialità a risultato ottenuto non deve far dimenticare che quando una struttura pubblica o accreditata prende in carico una persona da ricollocare fa un lavoro “preliminare” molto importante che non può essere sottovalutato ma che deve essere opportunamente riconosciuto. C’è dietro un lavoro e un servizio di assistenza, orientamento e riqualificazione di indubbio valore che in alcuni casi può anche non sfociare nell’immediata ricollocazione. Che ne facciamo di questo lavoro? Credo che la via migliore, come credo avverrà, sarà quella di riconoscere economicamente tutta l’attività che una struttura compie per la ricollocazione di una persona, diversificando, però, il “premio” economico. Alla fase preliminare verrà attribuito un riconoscimento economico di base e all’effettiva ricollocazione un riconoscimento più consistente in modo da incentivare lo scopo ultimo di questa attività e evitare abusi da parte di qualche furbo. Mi faccia dire, inoltre, che quando un’Agenzia privata è accredita presso una istituzione pubblica e opera grazie ad una licenza dello Stato è di fatto una diramazione dell’attività pubblica.
In questi anni si sono sviluppate pratiche positive già in alcune Regioni, penso alla Dote Unica Lavoro della Lombardia e in Veneto, in cui, in qualche modo, si è anticipato quello che dovrebbe avvenire su tutto il territorio nazionale. Può descriverci come funziona il modello in queste regioni virtuose e il vostro ruolo?
Il sistema lombardo e’ considerato a tutti gli effetti una best pratics riconosciuta anche a livello internazionale. Nel specifico il modello di Dote Unica Lavoro lombardo si basa su una diversificazione delle persone da collocare in base alla difficoltà di occupabilità. Per ciascuno di questi target di disoccupati sono previste delle attività specifiche e calibrate. Tali attività sono portate avanti in collaborazione tra le strutture regionali e quelle private accreditate tra cui ci siamo anche noi. Randstad, nello specifico, ha preso in carico 895 persone in Lombardia e di queste sono ne sonostate collocate 600 di cui 355 con un contratto di lavoro della durra di almeno 180 giorni. Per coloro che non sono stati collocati è stato fatto comunque un lavoro importante di assistenza, qualificazione o riqualificazione, orientamento e di analisi dei fabbisogni professionali del territoriale che ha permesso loro di aumentare le possibilità di collocazione. Oltre alla Lombardia, anche se con sfumature differenti, il Piemonte insieme al Veneto rappresentano le regioni storicamente più attive nell’ambito delle politiche attive con modelli innovativi sebbene diversi tra loro. C’è da dire, tuttavia, che ci sono alcune regioni con regole troppo restrittive, penso a quelle che non riconoscono, per esempio, il contratto di somministrazione come strumento di ricollocazione, mentre penso che la direzione dovrà essere quella della pieno dignità dei contratti flessibili tutelati come sbocco delle politiche attive.
Il Piano Garanzia Giovani è un esempio di politiche attive rivolte alla fasce giovanili che ha suscitato molte speranze. Gli ultimi dati parlano di un adesione di oltre 300 mila giovani, ma, a fronte di poche effettive collocazioni. Qual è il punto debole di questo piano e come il nuovo sistema che si sta prefigurando dovrebbe superare le criticità?
La disoccupazione giovanile in Italia è molto forte. Si pensi al fenomeno dei “Neet” che coinvolge circa 2 milioni e 250 mila ragazzi. Rispetto a questa situazione non si può caricare di eccessive aspettative il Piano Garanzia Giovani e pensare che in pochi mesi risolva tutto. Aspetterei ancora un pò prima di dare un giudizio affrettato. I dati ci dicono che già oltre 300 mila ragazzi si sono iscritti al piano e hanno svolto varie attività. Il fatto che oltre il 90%, poi, delle collocazioni sia avvento tramite il sistema delle Agenzie per il lavoro lo vedo come un ulteriore riprova della efficacia della collaborazione tra pubblico e privato. Persistono, tuttavia, elementi di criticità superabili ma che riguardano il funzionamento “tecnico” del piano. Penso soprattutto ad alcune Regioni in cui non sono partiti ancora i portali informatici e sono in ritardo con l’attuazione del piano, o il tempi di attesa eccessivi dal momento in cui inserisco una vacancy e le risposte che siamo in grado di dare alle aziende che esigono tempi più stretti. Quando tutto il meccanismo sarà funzionante al meglio, sono convinta che si vedranno risultati importanti.
Secondo i dati che periodicamente il rapporto Excelsior rende noti, oltre rapporti simili di altre fonti, nel nostro Paese esiste un serio e ampio problema di mismatching: migliaia di lavori disponibili che il mercato del lavoro non riesce a coprire. Com’è possibile invertire la rotta?
Ci sono delle ragioni strutturali dietro il fenomeno del mismatching, così diffuso in Italia. A tal proposito invito a visionare una nostra ricerca su scala globale. Nel caso italiano sono almeno due le ragioni di fondo all’origine del mismatching. La prima riguarda una lacuna nelle attività di transizione dalla scuola al lavoro. In questo passaggio il nostro sistema scolastico non fa abbastanza. Non si può pensare che ognuno possa inseguire il lavoro dei suoi sogni a prescindere dalla reali richieste del mercato del lavoro. Serve un efficace e strutturale servizio di orientamento. Molte cose possono essere fatte anche da parte nostra. Attraverso il fondo di formazione delle Agenzie per il lavoro, Formatemp, nel 2013 abbiamo realizzato iniziative di orientamento in molte scuole italiane coinvolgendo circa 20 mila ragazzi. Li abbiamo orientati verso i lavori e le competenze che le aziende del territorio richiedono. Inoltre, abbiamo inserito in alcuni accordi di welfare aziendale la possibilità di offrire ai figli dei dipendenti un corso di orientamento al lavoro con un riscontro immediato. Il secondo fattore, invece, riguarda la tipologia dei profili professionali. Ci sono situazioni in cui c’è una sovrabbondanza di certe tipologie professionali e altre in cui periste un evidente carenza rispetto alla domande delle aziende. Manca evidentemente la comunicazione tra scuola e lavoro. La tendenza va capovolta se vogliamo trovare lavoro ai giovani e ai meno giovani. Il mercato dell’orientamento è il mercato del lavoro di domani.
L’outplacement, nella logica di rilancio delle politiche attive, dovrebbe svilupparsi appieno anche in Italia. Ci state puntando? A che punto siamo?
Rispetto alle politiche attive del lavoro che sono finanziate dalla Stato, l’outplacement appartiene alla sfera privata e del rapporto tra aziende e dipendente. In Italia è presente da diversi anni anche se le sue potenzialità sono ancora inespresse. In uno schema generale, vedo il rafforzamento delle attività di outplacement soprattutto per la fascia di lavoratori con competenze medio-alte, mentre per quelli con competenze medio-basse immagino siano più efficaci e utili le politiche attive del lavoro con finanziamenti di natura pubblica. Penso che in una pieno sviluppo di entrambi gli strumenti questo potrebbe essere il giusto punto di equilibrio. Ovviamente, l’obiettivo è quello di potenziare anche l’outplacement in un contesto culturale del lavoro profondamente rinnovato.