Una recente indagine Eurostat aggiornata al 2018 ci indica che in Italia meno di sei laureati su dieci trovano lavoro entro tre anni dal conseguimento del titolo. La conclusione è che la laurea non assicura più un’occupazione sicura, almeno nel nostro Paese. Secondo la ricerca, infatti, l’Italia si colloca in fondo alla classifica degli Stati che offrono ai laureati una maggiore percentuale di occupabilità, al punto che solo il 59,8% di coloro che hanno conseguito il titolo di studio hanno trovato un’occupazione entro tre anni.
Una percentuale in crescita di dieci punti rispetto al 2014, ma il nostro Paese resta ancora lontanissimo dalla media europea, che ha raggiunto l’83,5%. Secondo Eurostat, questo primato negativo è superato solamente dalla Grecia, per cui l’Italia risulta penultima nella graduatoria europea, con un buon 40% di laureati non riesce a trovare lavoro, anche dopo un triennio dalla laurea. Andando al cuore del problema, possiamo tranquillamente dire che, esaminando la situazione degli altri Paesi europei, la percentuale italiana appare ancora più limitate se si confronta con il 90% della Repubblica Ceca, Paesi Bassi, Austria e Svezia, e Germania, dove si raggiunge anche il 97% nella Bassa Baviera, e con la media europea, che è l’83,5%. A peggiorare la sconfortante situazione, si rileva che in alcune regioni del Sud Italia meno di un terzo dei laureati è occupato: Sicilia (27%), Basilicata e Calabria (31%).
Perché i laureati faticano a trovare lavoro in Italia. Il tema della formazione e delle competenze, sia dei giovani che degli adulti, sembra non riscuotere più l’interesse del dibattito pubblico, salvo per qualche discussione sporadica. Se poi il tema è quello dei rapporti tra mondo della formazione e mondo del lavoro lo scenario è ancora più silente, soprattutto dopo il passo indietro fatto dal MIUR sull’alternanza scuola-lavoro. Di tanto in tanto vengono però diffusi dati che dovrebbero farci riflettere e portarci a concludere che forse stiamo ignorando il vero nodo centrale, non solo del futuro dei lavoratori italiani, ma del Paese stesso. Le cause di questa situazione sono tante e di diversa natura.
La prima è la strutturale debolezza dell’occupazione in Italia (con tassi di occupazione che comunque non hanno mai superato il 59%), insieme all’elevata percentuale di lavoro irregolare, e questo in parte può spiegare la distanza dagli altri Paesi europei. Ma c’è una ragione più profonda e complessa che riguarda, da un lato, la struttura produttiva del nostro Paese e, dall’altro, i percorsi universitari. Se i laureati da una parte sono pochi e dall’altra allo stesso tempo non trovano lavoro vuol dire che ci troviamo di fronte ad un problema di qualità della domanda o ad uno di qualità dell’offerta, o forse ad entrambi. Perché non basta formare un laureato per creare un nuovo posto di lavoro, soprattutto se le università e il mondo dell’impresa vivono in mondi paralleli. E questo spiega una delle conseguenze più paradossali, ossia la presenza di lavoratori sovraqualificati che si trovano a svolgere mansioni inferiori rispetto alle competenze di cui il mercato ha bisogno.
La domanda di tecnici nel settore manifatturiero e la domanda, fortissima, di lavoratori ne settore dei servizi alla persona, ad esempio, se non viene soddisfatta da una offerta di pari livello verrà soddisfatta da chi, piuttosto che rimanere disoccupato, si convincerà a fare un lavoro al di sotto delle sue capacità e competenze. E chi non accetta questo, rischia spesso di rimanere ai margini del mercato del lavoro.
Allo stesso tempo, però, c’è una grande difficoltà delle università a rimodellare i corsi di laurea rendendoli più rispondenti alle esigenze del lavoro di oggi. Questo non significa affatto allinearli alle esigenze del mercato o delle imprese, ma rinnovare la didattica e l’integrazione con la realtà al di fuori delle aule, per formare tutte quelle competenze trasversali che contano di più di quelle specialistiche, soprattutto in uno scenario nel quale i livelli di innovazione spesso sono bassi. La facile tentazione potrebbe essere quella di mettere una pietra sopra le lauree umanistiche, spingendo solo e unicamente per le cosiddette materie STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics). Ma questo vorrebbe dire impoverire ulteriormente il mercato del lavoro italiano e privarlo proprio di quei profili e competenze che possono portare quell’innovazione che a volte i tecnici applicano di fatto, senza però progettarla. La ricetta per cambiare le cose? Smontare la struttura verticale degli atenei, far dialogare tra loro discipline diverse e creare ponti tra le scienze sociali, le materie scientifiche e quelle umanistiche, come da tempo accade nelle università anglosassoni.
Scritto da Franco Sensi