Con la recente sentenza n. 144 del 9.1.2015 la Corte di Cassazione ha affrontato un tema molto dibattuto, quanto delicato e di sicuro impatto mediatico, offrendo una risoluzione della controversia tutt’altro che scontata. In estrema sintesi, il caso di specie riguarda un lavoratore che, ad insaputa del proprio datore di lavoro, aveva continuato a praticare un’attività sportiva del tutto incompatibile con le sue condizioni fisiche, ponendo a serio rischio la propria incolumità fisica e, pertanto, compromettendo seriamente il recupero delle sue energie fisiche e la sua capacità lavorativa in generale.
Reso edotto di tale condotta, il datore di lavoro avviava un procedimento disciplinare nei confronti di tale lavoratore, conclusosi con l’intimazione del licenziamento. A seguito del ricorso proposto dal lavoratore avverso il predetto recesso datoriale, sia il Tribunale, sia, successivamente, la Corte di Appello di Torino, rigettavano le domande attoree, avendo ritenuto legittimo il licenziamento intimato dalla Società, sul presupposto della violazione dell’obbligo di fedeltà posta in essere dal lavoratore, per aver perpetrato un comportamento “grave ed irrimediabilmente lesivo del rapporto fiduciario con l’azienda”, ulteriormente aggravato dal fatto che, “proprio in ragione delle condizioni di salute, il datore di lavoro aveva assegnato (il lavoratore) a mansioni ridotte e diverse da quelle precedentemente svolte, sopportando un inevitabile danno dal punto di vista dell’efficienza produttiva ed organizzativa”.
Avverso la suddetta pronuncia di appello il lavoratore proponeva ricorso in Cassazione domandando la riforma integrale della sentenza di appello, sulla base, principalmente, di due distinti motivi di censura.
Anzitutto il lavoratore contestava la correttezza della decisione della Corte territoriale, per aver, quest’ultima, ritenuto sussistente al di fuori dei periodi di assenza per malattia, “un dovere generale del lavoratore di adeguare la propria vita privata a standards salutistici particolari” ed aver esasperato il principio di buona fede, al punto da configurare nel nostro ordinamento l’esistenza di un “dovere di organizzare la propria vita in funzione della massimizzazione delle proprie capacità di rendimento lavorativo”.
In secondo luogo, il ricorrente censurava la sentenza impugnata sulla base di una ritenuta erronea valutazione della proporzionalità tra la condotta contestata e la massima sanzione disciplinare comminata dalla Società. Tali motivi non sono stati ritenuti meritevoli di accoglimento da parte della Suprema Corte, che, con la pronuncia in commento, ha integralmente confermato la sentenza di appello.
In particolare, la Suprema Corte ha anzitutto tenuto a ribadire il proprio consolidato principio secondo cui “l’obbligo di fedeltà del lavoratore subordinato ha un contenuto più ampio di quello desumibile dalla lettera della norma, dovendo integrarsi con il dovere generale di correttezza e buona fede, previsti dagli artt. 1175 e 1375 c.c., che impongono correttezza e buona fede anche nei comportamenti extralavorativi, necessariamente tali da non danneggiare il datore di lavoro”, per poi confermare ulteriormente che, “in tema di licenziamenti per violazione dell’obbligo di fedeltà, il lavoratore deve astenersi dal porre in essere non solo i comportamenti espressamente vietati dall’art. 2105 cod. civ., ma anche qualsiasi altra condotta che, per la natura e per le possibili conseguenze, risulti in contrasto con i doveri connessi al suo inserimento nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa, ivi compresa la mera preordinazione di attività contraria agli interessi del datore di lavoro potenzialmente produttiva di danno” .
Sulla base di tali premesse, la Corte ha, quindi, confermato la legittimità del licenziamento intimato dalla Società, avendo ritenuto che la condotta del lavoratore, colpevole di aver svolto un’attività sportiva che “non era compatibile con le sue condizioni fisiche” e che, pertanto, aveva “ridotto la sua capacità lavorativa con rischio di aggravamento delle condizioni stesse”, aveva integrato un comportamento “contrario ai doveri di buona fede e correttezza”, da ritenersi, sotto il profilo della proporzionalità, del tutto congruo, poiché “grave ed irrimediabilmente lesivo del rapporto fiduciario con l’azienda, posto che, proprio in ragione delle sue condizioni di salute, il datore di lavoro lo aveva assegnato a mansioni ridotte e diverse da quelle precedentemente svolte, sopportando un inevitabile danno dal punto di vista dell’efficienza produttiva ed organizzativa”.
In conclusione, con la pronuncia oggetto di commento, la Corte di Cassazione ha confermato, ancora una volta, l’importanza del rispetto dell’obbligo di fedeltà da parte del lavoratore, ponendo in evidenza, ancora una volta, l’indispensabilità del rispetto dei generali principi di correttezza e buona fede nel corso del rapporto di lavoro, anche a costo di limitare taluni comportamenti del lavoratore che, ancorché posti in essere al di fuori dell’orario di lavoro, siano tali da compromettere seriamente il vincolo fiduciario che deve necessariamente sussistere con il datore di lavoro.