Se la raccomandazione del politico è rivolta a soggetti estranei ai propri poteri funzionali non si integra il delitto di corruzione. Lo ha stabilito la Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la sentenza 4 ottobre 2012, n. 38762.
Il caso vedeva un primo cittadino segnalare al Direttore Generale della Asl il nominativo di una persona, allo scopo di ottenere il trasferimento di quest’ultima. Il passaggio era puntualmente avvenuto ed era seguito da un regalo, consistente in un computer portatile, fatto pervenire dal sindaco al Direttore della Asl.
In particolare, secondo i Giudici la raccomandazione è condotta che esula dalla nozione di atto d’ufficio; trattasi di condotta commessa in occasione dell’ufficio e non concreta, pertanto, l’uso dei poteri funzionali connessi alla qualifica soggettiva dell’agente.
Nel caso di specie, il dono del computer, avvenuto in occasione del compleanno e delle feste natalizie, “era riconducibile ad una iniziativa spontanea, quale segno di apprezzamento e riconoscimento della disponibilità ricevuta”. Ma nulla più, visto che l’interessamento del sindaco non era stato condizionato alla promessa di qualche utilità: pertanto, nel caso di specie, non è ravvisabile alcun reato, né di concussione (reato contestato in primo grado) e neppure di corruzione impropria.
Tale sentenza a prescindere dal merito, ci offre lo spunto per analizzare la vicenda da un punto di vista giuslavoristico.
Infatti, secondo orientamento giurisprudenziale oramai consolidato, vige l’assoluta autonomia fra la valutazione di un fatto in sede penale e la valutazione dello stesso fatto in sede in sede civile, ed in particolare, per quel che ci interessa, in sede di accertamento della sussistenza di una giusta causa di licenziamento: in altre parole, il giudice del lavoro adito con impugnativa di licenziamento, ove pure comminato in base agli stessi comportamenti che furono oggetto di imputazione in sede penale, non è obbligato a tenere conto dell’accertamento contenuto nel giudicato di assoluzione del lavoratore, ma ha il potere di ricostruire autonomamente, con pienezza di cognizione, i fatti materiali e di pervenire a valutazioni e qualificazioni degli stessi del tutto svincolate dall’esito del procedimento penale.
Infatti, la valutazione della gravità del comportamento del lavoratore, ai fini della legittimità del licenziamento per giusta causa, deve essere operata dal giudice alla stregua della ratio di cui all’art. 2119 c.c. e L. 604/66, ovverosia tenendo conto dell’incidenza del fatto commesso sul particolare rapporto fiduciario che lega le parti nel rapporto di lavoro, delle esigenze poste dall’organizzazione produttiva e delle finalità delle regole di disciplina postulate da detta organizzazione, indipendentemente dal giudizio che del medesimo fatto dovesse darsi ai fini penali.
Inoltre, così come evidenziato da numerose pronunzie giurisprudenziali, comportamenti o situazioni soggettive estranee alla prestazione lavorativa e come tali – secondo la regola generale – irrilevanti ai fini della sussistenza di una giusta causa di licenziamento, in concreto possono produrre riflessi nell’ambiente lavorativo e possono essere di gravità tale da far venir meno l’elemento di fiducia caratterizzante il rapporto lavorativo, indipendentemente dalla sussistenza di un danno effettivo per il datore di lavoro ed all’attinenza della condotta con l’attività svolta. In base a tale principio, ad esempio, è stata ritenuta sussistente una giusta causa di licenziamento di un dipendente di un istituto di credito condannato per il reato di ricettazione, atteso anche il particolare rigore con il quale deve essere valutata la lesione del rapporto fiduciario – particolarmente intenso nel settore del credito – ed indipendentemente dalla sussistenza di un danno effettivo per il datore di lavoro (Cass. n. 5332/2002).