Non tutti i lavoratori conoscono e utilizzano i servizi forniti dal welfare aziendale, al contrario il notevole tasso di disinformazione su questo argomento rende necessario un ripensamento complessivo dell’attuale sistema. È questo il quadro emerso dall’ultima ricerca promossa dalla società di consulenza Nomisma in collaborazione con Cgil, condotta su un campione di 70 aziende (la maggior parte con oltre 250 dipendenti), per un totale di 1.822 lavoratori, suddivisi tra impiegati (49%), operai (45%) e quadri (6%).
Welfare aziendale, questo sconosciuto. Il primo e forse più significativo dato rilevato dalla ricerca Nomisma riguarda la ridotta quota di lavoratori che effettivamente fruisce delle prestazioni di welfare aziendale: solo “poco più della metà dei lavoratori coinvolti (55%)”. Un dato che trova conferma nella solo parziale conoscenza di questo strumento da parte dei lavoratori: solo il 45% degli intervistati ha infatti dichiarato di esserne informato a grandi linee, mentre il 9% di non conoscerne affatto l’esistenza. È stato inoltre osservato come l’indice di conoscenza e fruizione di queste prestazioni cresca “all’aumentare dell’inquadramento lavorativo e del titolo di studio”. Se infatti solo il 48% degli operai fruisce di tali prestazioni, la percentuale sale al 66% tra i quadri, mentre i laureati (63%) superano di oltre il 10% coloro che hanno conseguito un livello di istruzione non superiore alle scuole medie (50%). Inoltre, significativo è anche il fatto che siano soprattutto le donne (61%) e le famiglie con figli (59%) – rispetto agli uomini, fermi al 52% – ad usufruirne maggiormente.
Ripensare il welfare in funzione dei lavoratori – stando a quanto indicato da Nomisma – sembrerebbe a questo punto necessario, soprattutto perché ben “il 39% degli intervistati ritiene che tali strumenti non intercettino gli attuali bisogni” dei lavoratori, tanto che il 38% preferisce ricevere somme in denaro, piuttosto che avvalersi dei benefit disponibili. È evidente che il welfare aziendale attuale non è quindi in grado di realizzare pienamente quegli obiettivi per cui è stato pensato dal legislatore. Il welfare aziendale – regolato dall’articolo 51 del Testo unico delle imposte sui redditi (TUIR) – può infatti coprire un’ampia gamma di servizi: “dall’assistenza sanitaria – riporta il sito di Nomisma – alla previdenza assicurativa, dallo sport al benessere”. Tra questi però, in base ai risultati dell’indagine, alcuni benefit sembrerebbero maggiormente apprezzati dai lavoratori, in particolare quelli inerenti alla “mobilità casa-lavoro, i mutui e i prestiti, oltre ai servizi su educazione e istruzione”.
Il grado di apprezzamento da parte dei lavoratori, soprattutto nei settori appena detti, è infatti tutt’altro che negativo: il 70% degli intervistati ha valutato positivamente l’utilità delle iniziative promosse. Ma, nonostante ciò, “sembra che il welfare – si legge sul resoconto dell’indagine – non stia ancora esprimendo appieno le proprie potenzialità”: ben il 40% preferirebbe infatti ricevere più denaro piuttosto che il valore corrispondente in benefit. A determinare una simile distanza dai lavoratori contribuisce di certo anche la mancata partecipazione degli stessi dipendenti nella definizione dei benefit necessari.
Un’azione coordinata tra aziende, sindacati e legislatore sembrerebbe dunque essere – indica la giusta strada da perseguire. Non è infatti pensabile – secondo Nomisma-Cgil – raggiungere tali obiettivi senza una reale integrazione con il welfare pubblico, nonché con i lavoratori. È proprio in questo senso che Nomisma e Cgil hanno evidenziato il ruolo centrale che potrebbe e dovrebbe rivestire il sindacato nello sviluppo della contrattazione di secondo livello. Dai dati raccolti emerge infatti come ancora troppo spesso il welfare aziendale si riduca ad “una mera misura di beneficio fiscale dagli impatti contenuti”, incapace di indagare realmente quelli che sono i reali fabbisogni dei singoli lavoratori.