Continua con il neo segretario della Fim Cisl, Roberta Benaglia, il giro di interviste ribattezzato “Cinque domande sul futuro del welfare aziendale nella fase post-covid”, ai protagonisti della contrattazione e in generale ai principali esperti e addetti ai lavori sul tema.
La storia recente del welfare aziendale ci dice che il boom del suo sviluppo è coinciso con la fase finale della grande crisi economica iniziata nel 2008 e durata circa 5 anni. In sostanza, la leva del welfare è stata attivata perché molto vantaggiosa da diversi punti di vista, come i vantaggi fiscali, il costo del lavoro e l’aumento del potere d’acquisto dei dipendenti. Facendo un parallelismo potremmo ipotizzare una seconda grande fase di crescita e diffusione del welfare aziendale nel post-covid?
Le caratteristiche della fase economica post Covid purtroppo non sono molto dissimili da quelle successive alla crisi economica del 2008, anzi per certi aspetti in questo 2020 presentano dati ancora ancora più crudi: recessione, deflazione e erosione dei margini aziendali sono elementi che restringono oggettivamente i margini nei quali si può sviluppare la contrattazione. Tuttavia a 5 anni dalla reimpostazione degli elementi di welfare contrattuale occorre svincolarsi dalla pura convenienza fiscale e di costo come fattore cardine e vantaggioso. Il welfare non va adottato per i risparmi che comporta ma per i vantaggi che può generare elevando in modo tangibile e positivamente percepito il benessere delle persone che lavorano. Solo seguendo questo obiettivo sarà possibile sviluppare ulteriormente il welfare nell’ambito della contrattazione. Mantenere un dualismo tra aumenti salariali e welfare non giova e rischia di soffocare sia l’uno che l’altro elemento cardine della contrattazione collettiva. La stagione post Covid inoltre può rilevarsi utile per modificare i piani di welfare e inserire ulteriori prestazioni di protezione e di servizio proprio legate ai bisogni che le persone, le loro famiglie e il lavoro avvertono come tutele urgenti (basti pensare alle campagne antiinfluenzali in ambito sanitario o ad interventi che si attivano in caso di quarantene forzate per chi lavora o per i propri familiari. Serve verificare e riprogettare gli indirizzi che le parti sociali vogliono assegnare al welfare integrativo, superando la semplice offerta che i provider spesso si limitano a proporre.
Le riforme importanti della normativa sul welfare aziendale sono intervenute durante il Governo Renzi nel 2015 e 2016. Con questi interventi legislativi si è incentivato il welfare soprattutto nell’ambito della contrattazione sindacale, si è evidenziato il tema dei servizi alla persona, sono stati semplificati alcuni passaggi. Si sono create così le condizioni per lo sviluppo dello strumento di questi anni. Il cosiddetto decreto di agosto (2020), inoltre, ha introdotto la modifica sul tetto massimo di esenzione per i frange benefit, portandolo da 258,23 a 516,46 euro, seppur fino a fine 2020. E’ arrivato il momento di fare un primo tagliando alle riforme introdotte nel 2015 per capire come rafforzare e incentivare ulteriormente il welfare aziendale?
A distanza di 5 anni un tagliando è indispensabile. Anzitutto va organizzata una analisi dettagliata di come il welfare contrattuale è stato concretamente utilizzato dalle persone. La popolazione lavorativa che vi fa accesso in realtà spesso è minoritaria. Se si parla della conversione in welfare dei premi di risultato, laddove questa è prevista in media è attivata dal 30% dei lavoratori, proprio perché quella soluzione, che non disconosciamo, mette in alternativa il salario del lavoratore con l’accesso al welfare. Solo persone fortemente bisognose accedono alle convenienze e ai servizi previsti. Soprattutto da sindacalisti assistiamo ad uno squilibrio nell’accesso al welfare che vede soprattutto i lavoratori più professionalizzati e istruiti farvi accesso, mentre forse chi ne ha più bisogno fa più fatica. Occorre sostenere con più servizi l’accesso facile per tutti i lavoratori, anche a quelli con basse competenze digitali, alle piattaforme che offrono le coperture.
Occorre inoltre puntare più sull’offerta di servizi che di rimborsi o di buoni spesa se vogliamo staccare l’immagine del welfare aziendale da quella di un “salario cartaceo detassato” che non aiuta. Non dimentichiamo inoltre che la vera forza del welfare contrattuale è il mutualismo, che le riforme di 5 anni fa non hanno rafforzato e incentivato come dovrebbe essere. Infine circa l’innalzamento nel decreto agosto della soglia di esenzione fiscale per i fringe benefits, indispensabile dopo 34 anni, come Fim Cisl siamo stati tra i primi a chiedere che lo stesso venga reso stabile oltre il 2020 e maggiormente correlato a scelte fatte dalla contrattazione collettiva, altrimenti rischiamo che lo sviluppo del welfare andrà di pari passo ancora di più con politiche unilaterali delle imprese che non vedo perché lo stato deve incentivare e detassare
Il welfare nelle relazioni industriali. Nell’ambito della contrattazione sindacale la voce del welfare aziendale ha progressivamente assunto un ruolo sempre più evidente. Non solo a livello aziendale ma anche nella contrattazione nazionale in cui in diversi settori, a partire dal metalmeccanico che ha fatto da apripista, sono state introdotte delle quote di welfare nazionali obbligatorie. Il tema più ampio del nuovo patto sul lavoro fondato sempre di più sullo scambio lavoro-benessere sta prendendo corpo in modo sempre più evidente. Quale sarà il peso della contrattazione della componente del benessere e del welfare nelle relazioni industriali anche alla luce della fase post emergenza sanitaria e del “nuovo corso” in Confindustria?
La questione della sostenibilità del lavoro è una delle caratteristiche del lavoro che cambia e il welfare deve contribuire fortemente a questa dimensione. Ma i bisogni che creano benessere non sono solo legati ai servizi di welfare che la contrattazione deve sempre più alimentare non solo con nuove risorse ma anche curando l’efficacia dei servizi. Accanto ai servizi di welfare la contrattazione si sta già occupando di istituti per una migliore conciliazione vita lavoro. Lo smart working, se non inflazionato e mitizzato ma regolato sui bisogni reali di imprese e lavoratori, va in questa direzione. Ma penso soprattutto a come migliorare l’uso del tempo da parte delle persone nel rapporto di lavoro. Serve contrattare una nuova batteria di tutele che permetta a chi lavora di accedere a quote di tempo di lavoro per i propri bisogni o per quelli della famiglia. Permettere la convertibilità di welfare e salario in tempo e in riduzioni di orario che liberamente i lavoratori possono scegliere è una frontiera che la contrattazione deve esplorare. Puntare su un aumento dei permessi per bisogni di assistenza è decisivo per cogliere bisogni che nessun altro servizio di welfare può garantire. Il futuro del benessere di chi lavora non sarà coperto solo da servizi o prestazioni di welfare ma da una flessibilità degli orari amica dei lavoratori.
Uno degli impatti più significati dell’emergenza Covid sul mondo del lavoro è stato l’ampio ricorso allo smart working. Il tema più ampio, ad esso connesso, riguarda un modello di organizzazione del lavoro sempre meno ispirato ai vecchi canoni spazio – temporali e tendente ad un modello capace di conciliare le dinamiche lavorative con quelle della vita privata, della produttività e della flessibilità. Parliamo in sostanza di welfare organizzativo. Cosa ci attende da questo punto di vista nel post-covid?
Lo smart working con il lockdown è stato un grande esperimento di massa forzato che ha obbligato una platea ampia di imprese e lavoratori a misurarsi con il lavoro in remoto. Fino allo scorso anno lo stesso era organizzato e contrattato in un numero di imprese limitato e ben organizzato per un numero piccolo di lavoratori coscienti e volontari. Ora indietro non bisogna tornare ma quello che va fatto è una ripresa del ruolo della contrattazione collettiva nel regolare in modo diffuso gli ambiti e i presupposti di questa modalità di lavoro. Stiamo assistendo ad un dibattito che da un lato rischia di mitizzare lo smartworking come una assoluta libertà. Dire che si superano gli orari di lavoro e si responsabilizzano i lavoratori è facile ma sono ancora poche le aziende in Italia che non operano con sistemi di controllo e di gestione piramidali. La positiva propensione di molte imprese e lavoratori a continuare ad adottare momenti di lavoro in remoto è il terreno utile per negoziare nuove tutele: dal diritto alla disconnessione, alla strumentazione che deve rendere agevole la postazione di lavoro fuori ufficio, dalla formazione non solo per chi lavora ma per i responsabili che devono saper dare fiducia ai collaboratori alla gestione flessibile degli orari di lavoro sono molti gli elementi da trattare. Non serve a tali fini una nuova legge serve maggiore contrattazione collettiva che vedo in queste settimane dispiegarsi con impegno. Non sarà facile tuttavia dare gambe a sistemi di retribuzione contrattati che possano superare il concetto di retribuzione oraria e passare ad una completa retribuzione per risultati. Facile a dirsi ma non ho ancora trovato proposte sostenibili a meno di decidere, cosa per il sindacato impossibile da accettare, che è l’azienda a stabilire da sola il rapporto tra obiettivi e salario.
Il ruolo sociale dell’impresa. Con i piani di welfare, in particolare, le aziende in questi anni hanno evidenziato un ruolo sociale di evidente impatto e valore e integrativo rispetto al welfare statale. Su molti capitoli il welfare aziendale ha svolto un ruolo di integrazione: si pensi ai servizi alla persona come colf, badanti, baby sitter, alle diverse forme di sostegno al reddito sia per l’acquisto di beni di prima necessità, alimentari e cosi via, ma anche per l’impatto sulla spesa scolastica dei figli dei dipendenti, oltre al sostegno alla mobilità green e ad altri vantaggi. In una prospettiva di welfare community tale ruolo delle aziende andrebbe rafforzato e valorizzato, sempre in una logica integrativa, oppure ci sarebbero delle controindicazioni?
E’ molto importante sviluppare una cultura del welfare aziendale che sia contrattuale e integrativa ai servizi pubblici. Per fare ciò occorre che le parti sociali non si accontentino come oggi spesso fanno di ingaggiare un provider che vende benefit, rimborsi o servizi privati. Serve aprirsi al territorio e creare una rete di riferimenti che sappiano sviluppare servizi integrati e a disposizione dei lavoratori. Generare servizi di welfare sul territorio può contribuire a superare, soprattutto nel mondo dei servizi alla persona, posti di lavoro regolari e occupazione. Ma permette anche di sostenere lo sviluppo del welfare tramite l’offerta di quello contrattuale. Pensiamo anche a come far accedere al welfare fasce di lavoratori (penso a contratti a termine, somministrati, partite Iva) che solo sul territorio possono accedere a proposte concrete più che dentro una singola azienda. E inoltre io credo, in un paese di tante Pmi, alla necessità di creare reti che sappiano proporre un “welfare chiavi in mano” alle tante aziende che da sole non potrebbero mai organizzarlo. E’ la bilateralità la chiave di volta che le parti sociali devono sempre più recuperare e rilanciare.