Musicologo, saggista, docente universitario, conduttore radiofonico Stefano Zenni (nella foto) ha diretto il Torino Jazz Festival appena concluso, allargandone la platea ad oltre 200 mila persone – quasi il doppio dell’anno scorso – grazie ad un programma di grande qualità, unito ad un efficiente lavoro di squadra. A lui abbiamo chiesto di parlarci della professione di musicologo e dei percorsi, non sempre facili, per arrivarci.
”Personalmente mi sono avvicinato alla musicologia in maniera abbastanza decisa. Ero un pianista jazz, mi sono iscritto e poi laureato al Dams con il proponimento di studiare la musica da un altro punto di vista, non solo tecnico-strumentale. Parlando più in generale chi fa il mestiere di musicologo oggi affronta in realtà una pluralità di mestieri. E’ una persona che insegna (nel mio caso in due conservatori peraltro con contatto a termine come gran parte dei docenti) fa conferenze, scrive: sono attività non particolarmente reumerative dal punto di vista economico, però sicuramente utili per sviluppare relazioni e allargare i contatti”.
Rimane tempo da dedicare alla ricerca?
Il musicologo aspira a far ricerca e scrivere libri (e lo fa) però, per sbarcare il lunario, spesso deve fare molte altre cose. Questa pluralità peraltro diventa un vantaggio, paradossalmente, perché se sei un pò musicista, un po’ insegnante, un pò scrittore, un po’ conferenziere, un po’ organizzatore di festival, questo vuol dire vivere la musica a 360 gradi. Ogni elemento di un’attività aiuta l’altra: organizzando il festival di Torino, ad esempio, è stata utile la mia esperienza d’autore di una storia del jazz: non voglio dire che l’organizzatore debba essere necessariamente un intellettuale, però quel tipo d’esperienza aiuta. Allo stesso modo essere musicista mi è servito a capire i problemi concreti del musicista; insegnare mi ha aiutato a comprendere come comunicare, e sono tutte competenze che si alimentano a vicenda.
Chi sceglie questa professione oggi affronta quindi un percorso ad ostacoli. Quali pasaggi consigli dal punto di vista formativo?
Il percorso classico del musicologo passa per corsi di laurea come quello di Cremona – orientato alla musica classica – o come il Dams che viene proposto in diverse università, con risultati più o meno efficaci. Una volta laureati è bene aver presente che per iniziare a lavorare è utile andare verso una dimensione plurale: iniziare a insegnare, magari in una piccola scuola di musica, cominciare a scrivere sui blog e sulle riviste specializzate, fare conferenze – anche gratis inizialmente – per farsi conoscere, provare a organizzare un concerto. La qualità in questo senso paga, almeno in questo ambiente: il fatto di essere professionalmente solidi aiuta a farti strada. Quello che non bisogna fare – può sembrare strano ciò che sto per dire – è aver la presunzione che prima impari tutto e poi cominci a lavorare. No. Serve una base di studi solida, però si impara molto strada facendo, mettendosi in gioco. Ogni volta che ci si confronta con qualcosa di nuovo si è in una posizione scomoda ma si ha una straordinaria occasione d’apprendimento.
Ci vuole anche una grande passione!
La Passione per quello che fai è fondamentale, perché ti aiuta ad andare avanti, a crescere, avere altre occasioni. Se hai passione la trasmetti e poi la stessa ti ritorna: il calore della comunicazione, che poi è vita, è molto apprezzato! Anche studiare è fondamentale: occorre conoscere la storia delle musica, il contesto in cui si sviluppa, le interazioni con le altre arti e le altre discipline.
Saper utilizzare la rete è importante per un musicologo?
E’ molto importante ricordandosi, però, che il mondo non coincide con la Rete: in rete bisogna saper cercare, selezionare, valutare, filtrare e anche in questo caso la competenza storica-critica torna d’aiuto.
Il Festival Jazz di Torino si è concluso con un bilancio che sembra decisamente positivo.
Faccio fatica a frenare l’entusiasmo, anche se rischio d’esser preso come presuntuoso. Il festival sta crescendo in modo esponenziale, al di là delle aspettative. I concerti sono stati di alto livello, c’è stata molta attenzione alla didattica. Quello che ha sorpreso, anche noi, è che la qualità sia arrivata a un pubblico così vasto! Siamo riusciti a coinvolgere il grande pubblico con spettacoli d’alta qualità, sfatando l’idea che per richiamare molta gente servano cose banali, da quattro soldi. Abbiamo avuto la piazza piena con Antonello Salis, che fa una proposta musicale non semplice; abbiamo avuto una standing ovation per Mauro Ottolini e grande riscontro anche con musicisti più ‘popolari’ come Manu Dibango o Al Di Meola. Per il futuro vogliamo puntare ancora di più sui giovani musicisti: a loro vorremmo dedicare una sezione intera del Festival.
Bibliografia Stefano Zenni
Storia del jazz. Una prospettiva globale (Stampa Alternativa, 2012)
Louis Armstrong. Satchmo: oltre il mito del jazz (Stampa Alternativa, 1996)
Herbie Hancock. Jazz, Buddha e funky a 88 tasti (Stampa Alternativa, 1999)
Charles Mingus. Polifonie dell’universo sonoro afroamericano (Stampa Alternativa, 2002)
I segreti del jazz (Stampa Alternativa, 2008)
1 commento
Concordo su tutto. E’ il percorso che da oltre un decennio ho scelto anch’io, con non pochi sacrifici ed andando spesso contro corrente rispetto a quello che il mercato propina. La passione è l’ingrediente di base, ma non meno importanti sono una solida preparazione in materia, integrata dall’esperienza che si matura di giorno in giorno “sul campo”, anche tanta “curiosità” ed apertura mentale scevra da preconcetti, nonchè capacità critica e possibiltà di operare in piena indipendenza. E poi la voglia di comunicare, di trasmettere tutto questo agli altri, per cercare di raggiungere e di stimolare un pubblico che da troppo tempo non sa più “scegliere”, bensì ha accettato un ruolo passivo. Complimenti per l’intervista e per la scelta dell’argomento!