Intervista a Enzio Mattina, vice Presidente di Quanta Spa, una delle principali Agenzie per il lavoro italiane, che viene da una lunga esperienza come dirigente sindacale della Uil prima e manageriale dopo, intervallati da una parantesi politica come Senatore della Repubblica e parlamentare europeo. Ecco come immagina il futuro del mercato del lavoro flessibile.
Partiamo da un’apparente contraddizione di fondo. E’ chiaro a tutti, credo, che siamo nell’era della flessibilità del mercato del lavoro. Il mito del posto fisso non esiste più nei fatti né tantomeno nelle aspirazioni dei giovani. Eppure il legislatore in riferimento ai contratti di lavoro a termine e flessibili parla sempre di eccezione laddove la normalità del rapporto di lavoro è quella a tempo indeterminato. C’è qualcosa che non torna. Se il mercato del lavoro è flessibile, per logica conseguenza, allora i contratti di lavoro flessibili non dovrebbero essere considerati un’eccezione dal legislatore. Cosa ne pensi?
La prima questione che va chiarita, una volta per tutte in Italia, è che il contratto a tempo non può essere concepito come un fattore derogatorio rispetto al contratto a tempo indeterminato. I contratti subordinati a termine devono avere la stessa legittimità e dignità del contratto oggi considerato ordinario e prevalente. Il contatto a termine e ovviamente il contratto in somministrazione non sono un eccezione alla regola, ma sono forme contrattuali e di organizzazione del lavoro con pari dignità. Fin quando non rimuoveremo questo equivoco, di origine soprattutto ideologica, avremo sempre i tribunali del lavoro intasati dal contenzioso che l’attuale ambiguità normativa permette. Come si può pensare di programmare e favorire le assunzioni se ogni volta che si sottoscrive un contratto a termine si ha la consapevolezza che alla scadenza contrattuale, se non si rinnova, si finisce davanti ad un giudice? Tale anomalia è un forte deterrente al corretto funzionamento del mercato del lavoro. A maggior ragione se questo avviene in un Paese in cui abbiamo oltre 3 milioni di lavoratori in nero! Lì è la precarietà vera in cui vige il far west delle regole e dei diritti. In questi anni si è sbagliato obiettivo con il risultato di indebolire gli strumenti della flessibilità legale e tutelata facendo, così, un favore proprio a coloro che nell’illegalità sguazzano. In questo senso sono favorevole anche ad una semplificazione dei contratti esistenti attraverso un forte ridimensionamento dei contratti cosiddetti atipici a favore di un estensione dei contratti legali e garantiti.
Per queste ragioni ribadisco che il passaggio più importante per modernizzare il lavoro in Italia è l’equiparazione del contratto a tempo determinato con quello a tempo indeterminato. Basta gerarchie. E’ illusorio pensare di creare lavoro stabile per via contrattuale. Oggi, le possibilità di dare certezze e sicurezze ai lavoratori passano attraverso strumenti diversi.
Quando si parla di contratti di lavoro flessibili, inevitabilmente si finisce per mettere sullo stesso piatto sia quelli tipici del lavoro subordinato che quelli specifici del lavoro autonomo come partite Iva e contratti a progetto. Non si rischia, quando si chiede il ridimensionamento dei contratti autonomi “finti” di creare un danno al lavoro autonomo autentico? In altre parole, la battaglia legittima verso le false partite Iva se fatta in modo ideologico non rischia di danneggiare le vere partite Iva e i veri professionisti a progetto che in Italia sono diversi milioni di persone?
Nel nostro mercato del lavoro si riscontra quotidianamente un uso fraudolento dei contratti di lavoro autonomo che, di fatto, mascherano un lavoro subordinato a tutti gli effetti. E’ questa una pesante distorsione alla quale bisogna porre rimedio. La mia posizione in questo senso è chiara. Dobbiamo favorire il più possibile la flessibilità tutelata e legale per ridimensionare il fenomeno della precarietà e dell’illegalità contrattuale. In questo senso vanno trovate delle formule che definiscano in modo chiaro e inequivocabile cos’è il lavoro autonomo e cos’è il lavoro subordinato per evitare commistioni illegittime.
A mio parere ciò che può segnare una netta linea di demarcazione tra i due ambiti è il livello di autonomia e specializzazione. E’ evidente in questo schema che un lavoro ripetitivo e con scarsa autonomia non può essere svolto con un contratto a progetto. Attraverso una chiara definizione di questi due concetti è possibile stabilire quali sono le professioni e i lavori in cui è legittimo ricorrere ai contratti a progetto o all’apertura della partita Iva e quelli, invece, in cui non è legittimo. Credo che sia questa la strada più sensata e pratica, piuttosto che immaginare di buttare via con l’acqua sporca anche il bambino. Il mondo del lavoro è fatto di lavoro autonomo e lavoro subordinato ed entrambi hanno bisogno di forme contrattuali specifiche che ne regolino i rapporti. Per questo non immagino affatto, come da qualcuno paventato, l’abolizione delle partite Iva o dei contratti a progetto ma auspico una netta definizione dei due campi di espressione del lavoro, in modo da evitare gli abusi.
Uno dei primi atti sul lavoro del Governo Renzi ha riguardato proprio i contratti a termine e quelli in somministrazione. Con il provvedimento Poletti si è tolta la cosiddetta causale e si è reso il ricorso a questi contratti più semplice e meno burocratico, favorendo, in questo modo, anche una diminuzione del contenzioso giudiziario. Che ne pensi?
L’aver tolto la causale dai contratti a termine e in somministrazione non significa, come da più parti ho sentito, aver “liberalizzato” il ricorso a queste forme contrattuali. Non è questo il punto. Questo provvedimento, che ho condiviso, va nella direzione di una maggiore semplificazione burocratica e soprattutto nel ridimensionamento del contenzioso giudiziario tra aziende e lavoratore che proprio nell’indicazione della causale traeva origine. L’effetto più immediato e concreto che vedo è proprio in questo aspetto. Si tratta di un passaggio verso la piena legittimità di utilizzo di questi contratti e di conseguenza di un disincentivo verso il ricorso, frutto spesso di un riflesso condizionato, al giudice del lavoro da parte del lavoratore. Per contro, invece, sono stati introdotti degli elementi di rigidità prima inesistenti. Il limite del 20 per cento massimo (limite che la contrattazione collettiva può modificare) di utilizzo di contratti a termine in un’azienda è, appunto, un elemento di rigidità e non certo di liberalizzazione.
Veniamo al maggior ruolo che le Agenzie per il lavoro potrebbe svolgere nel nuovo mercato del lavoro partendo da un tema preliminare circa le sue finalità: lo scopo ultimo delle Agenzie è quello di creare stabilizzazione dei rapporti di lavoro? Sembra un ossimoro, per certi versi, ma mi sembra che in alcuni, anche tra gli addetti ai lavori, non è ancora ben chiara la reale funzione delle Agenzie per il lavoro e del contratto in somministrazione. Facciamo chiarezza.
Scopo delle Agenzie per il lavoro non è la stabilizzazione dei rapporti di lavoro. Non nascono con questa funzione. La loro finalità autentica è quella di prefigurare un nuovo modello di organizzazione del lavoro basato su una sorta di doppia datorialità, da un lato l’Agenzia per il lavoro e dall’altro l’azienda utilizzatrice. L’Agenzia però non svolge la funzione di un ufficio di collocamento ma è un datore di lavoro a tutti gli effetti. Si tratta di un modello di flessibilità del lavoro e dell’organizzazione del lavoro molto particolare e tutelato in cui il tema vero dal punto di vista dei lavoratori non è la stabilizzazione ma l’occubabilità, o per dirla con un termine in voga è l’employability. E’ un modo per conciliare le esigenze di flessibilità produttiva e organizzativa delle aziende con le esigenze di flessibilità dei lavoratori. In questo connubio si esprime la funzione centrale del contratto di somministrazione e del ruolo delle Agenzie per il lavoro. In questo scenario, va da se, che non ha ragion d’essere la richiesta di stabilizzazione del rapporto di lavoro. Siamo di fronte un modello basato su presupposti diversi in cui l’obiettivo da perseguire, sia per il lavoratore sia per l’Agenzia per il lavoro, è il potenziamento dell’occupabilità del lavoratore, senza dimenticare l’identificazione di una rete di protezione e di sostegno nei periodi di inattività.
A latere di questa funzione di fondo, nella prassi svolgiamo anche un ruolo significativo nella gestione pratica e burocratica delle funzioni tipiche degli uffici del personale che vengono in sostanza a noi delegate. Ci preoccupiamo della gestione di tutta una serie di aspetti burocratici del rapporto di lavoro che altrimenti sarebbero a carico delle aziende utilizzatrici. Non ultimo, va ricordato che il pagamento del salario è a carico dell’Agenzia.
Ma le Agenzie per il lavoro non sono solo somministrazione e potrebbero svolgere un ruolo importante anche in rinnovate politiche attive del lavoro, visti anche gli scarsi risultati dei Centri per l’impiego pubblici, in modo da favorire un miglior funzionamento dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro più in generale. Come immagini questo ruolo?
Le politiche attive del lavoro sono il vero punto debole del nostro mercato del lavoro che in questi anni si è concentrato quasi esclusivamente sulle politiche passive e assistenziali. Va invertita la rotta. E’ fondamentale in un mercato del lavoro strutturalmente flessibile puntare su politiche che agevolano e favoriscono la ricerca di nuova occupazione. Da questo punto di vista siamo molto indietro e le cose da fare sono molte e urgenti. I Centri per l’impiego pubblici hanno evidenziato molti limiti e ottenuto scarsi risultati in questi anni. Le Agenzie per il lavoro possono dare un contributo decisivo per il potenziamento delle politiche attive come già fatto, per esempio, nel piano Garanzia Giovani in cui la quasi totalità degli annunci di lavoro è di nostra provenienza. Immagino una fattiva e proficua collaborazione in questo campo tra pubblico e privato ma in una logica di premialità del risultato così come prefigurato nei contratti di ricollocazione pensati dal professor Ichino e in fase di sperimentazione. Questa logica prevede un’allocazione delle risorse disponibili assegnate a strutture accreditate, pubbliche o private, che prendono in carica un disoccupato e che riescono effettivamente a collocarlo. In un sistema così pensato vedo un ruolo importante per le Agenzie per il lavoro e soprattutto un effettivo rilancio delle politiche attive.
Il tema dell’occupabilità, come ci hai ricordato, è decisivo per navigare nel mare aperto del lavoro flessibile. La necessità di cercare un nuovo lavoro e apprendere nuove competenze e nuove professionalità è presente durante tutto l’arco del percorso lavorativo di ciascuno. Ciò premesso, mi sono sempre domandato perché al contratto di apprendistato non è stato ancora tolto il limite di età? Abbiamo un numero elevato di disoccupati under 50 che sono chiamati a reinventarsi un lavoro ma senza strumenti contrattuali che possano agevolare e favorire questo passaggio. Sei d’accordo?
Condivido la tua sollecitazione. Se la premessa è un mercato del lavoro flessibile in cui la necessità di apprendere un nuovo mestiere o una nuova professione è presente non solo all’inizio del proprio percorso lavorativo e ragionevolmente in età giovane ma durante l’intero percorso e quindi anche a 40 o 50 anni, allora non ha più senso il limite di età nel contratto di apprendistato. Pensiamo allora ad una cancellazione del limite anagrafico nel contratto in essere oppure creiamo un nuovo contratto adatto allo scopo e che abbia come finalità l’agevolazione dell’ingresso in azienda di lavoratori con un’età superiore ai 29 anni in modo da agevolare l’apprendimento sul campo attraverso agevolazioni contributive per le aziende. Potremmo cominciare a sperimentare questo nuovo contratto con le Agenzie per il lavoro che già ricorrono all’apprendistato in somministrazione e che potrebbero sperimentare il nuovo istituto anche per le fasce d’età sopra i 29 anni. Noi siamo pronti.