Che la disparità di genere nel mondo del lavoro non sia affatto diminuita con la pandemia è qualcosa che abbiamo in qualche modo percepito tutti, sia durante il primo lockdown che durante il secondo. Ma più che una percezione è una certezza e a confermarlo sono i numeri.
Tra questi, quelli che emergono dal XXII rapporto sul mondo del lavoro a firma del CNEL (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro) evidenziano come su un target di popolazione compresa tra i 15 e 64 anni, solo il 26,7% delle donne risulta occupato a dispetto del 36,3% degli uomini. E la situazione, con il Covid-19 non è affatto migliorata.
Il gender pay gap non riguarda solo l’Italia
Ma se pensate che questo riguardi solamente l’Italia, non è esattamente così: quello della differenza di genere per quanto riguarda il mondo del lavoro e gli stipendi è un fenomeno molto diffuso in quasi tutta Europa, come evidenzia il Ces, Confederazione Europea dei Sindacati e in particolare una sua affiliata, la industriALL Europe, sindacato dei metalmeccanici.
A parità di lavori che richiedono le stesse competenze, lo stesso livello di istruzione e lo stesso sforzo fisico degli uomini, le donne sono ancora pagate meno e questo nonostante la legislazione UE sulla parità di retribuzione sia in vigore da 45 anni.
In Germania si arriva a una differenza di più di 800 euro e in Romania quasi 250
Stando sempre al CES, in un confronto sui salari del settore manifatturiero emerge, per esempio, che le donne che producono elettrodomestici sono pagate molto meno degli uomini che producono automobili, anche se entrambi i lavori richiedono le stesse competenze.
Di quanto si parla con precisione? Per quanto riguarda la Germania, in media di 865 euro lordi mensili in meno. Stando agli esempi di industriALL Europe emerge come in entrambi i settori siano richieste abilità meccaniche, sforzo fisico, si sia esposti a rischi fisici e per la sicurezza e, nonostante questo, le donne guadagnino 3.516 euro lordi mensili contro i 4.381 degli uomini.
Non va meglio in Romania anche se la situazione sembra essere apparentemente meno grave: in questo caso la disparità di stipendi è di 244 euro. Ovviamente a sfavore delle donne. Anche se qui, essendo gli stipendi più bassi, la differenza in un certo senso pesa di più. Un’operaia manifatturiera che ha la stessa età di un uomo, lavora a tempo pieno con contratto a tempo indeterminato in un’azienda di medie dimensioni, guadagna mensilmente 506 euro lordi contro i 750 del suo collega.
Questi esempi evidenziano dunque un pregiudizio negativo nei confronti delle donne ecco perché sia la CES che industriALL Europe chiedono misure vincolanti sulla trasparenza di genere. Quelle misure che Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Europea, ha promesso, si legge nel comunicato, e che, come dicono i sindacati, permetterebbero loro “di accedere alle informazioni in merito ai criteri per decidere i livelli di retribuzione”. Il tutto per consentire di negoziare la parità di retribuzione per un lavoro di pari valore.
Il Covid ha messo in luce il pregiudizio che c’è dietro i salari. In merito Esther Lynch, vice segretario generale della CES, ha dichiarato: “Il confronto della retribuzione delle donne e degli uomini nel settore manifatturiero mostra chiaramente come le donne siano pagate meno anche quando il loro lavoro richiede gli stessi livelli di abilità e sforzo fisico di quelli degli uomini. La crisi Covid ha anche messo in luce il profondo pregiudizio dietro i salari per le professioni dominate dalle donne, con badanti e addetti alle pulizie riconosciuti come ‘essenziali’ nonostante siano tra i meno pagati. Abbiamo bisogno che la Commissione europea mantenga la promessa di una direttiva sulla trasparenza salariale per garantire che uomini e donne ricevano finalmente la stessa remunerazione per un lavoro di pari valore”.
Usare il Recovery Fund per politiche strutturate e integrate: la richiesta de “Il giusto mezzo”.
Tornando all’Italia, come sappiamo, il Recovery Fund dovrebbe prevedere 4,2 miliardi per la parità di genere, ma fa notare il gruppo “Il giusto mezzo”, composto, come si legge sul sito da “donne della società civile, attive nel mondo del lavoro in diversi settori e con competenze diversificate”, potrebbero essere dei fondi non adeguati.
Il gruppo, che sabato 23 gennaio è sceso nelle piazze di Milano, Roma, Torino e Palermo al grido di “Il Recovery non ci copre” e #noncibasta”, chiede con una lettera al presidente del Consiglio Giuseppe Conte e al Governo che vengano messe in atto delle proposte davvero concrete.
Il gender gap, lo ricordano le donne, non riguarda solo chi vive la disparità di genere ma tutta la società. Tra le varie proposte per sfruttare al meglio questo fondo a favore dei paesi più colpiti dal Covid-19 c’è l’allargamento dell’offerta sulla cura della prima infanzia, dei bambini ma anche degli anziani e dei parenti non autosufficienti. Si chiede inoltre il rilancio dell’occupazione femminile anche riprendendo “ipotesi di supporto fiscale” e che si agisca con politiche strutturate e integrate per colmare il gap degli stipendi. Soprattutto il gruppo tiene a precisare che non sono tanto i bonus nidi a migliorare la situazione delle donne, ma un’offerta diffusa su tutto il territorio nazionale perché “l’educazione dell’infanzia non è un servizio a domanda, ma un diritto della persona”. Capita spesso infatti che le donne si assentino perché non hanno nidi vicini o scuole a tempo pieno.
Si legge ancora nella lettera: “I vantaggi dell’azione strutturale su educazione e cura della prima e della infanzia, sulla scuola, su incentivazione del lavoro femminile, su superamento della discriminazione di genere relativa a funzioni, salario e riconoscimenti, sulla presenza delle donne nelle decisioni della policy pubblica, come dicono voci e studi noti, sarebbero tali da ripagare gli investimenti, in questo caso non riducibili a costi ma definibili “ investimenti moltiplicatori” cioè che si ripagano da soli e in poco tempo conducono a guadagni: sociali, economici, culturali, demografici.