Rispettiamo sempre come sindacato ogni sentenza della magistratura, ed in coerenza a ciò, abbiamo preso tempo per analizzare la situazione che la stessa determina. Ma quanto disposto ieri dal Tar di Lecce circa la chiusura entro 60 giorni della area a caldo della Ex- Ilva di Taranto costituisce l’ennesimo ribaltone giudiziario, una minaccia forte alla vita dello stabilimento e al futuro di oltre 20mila famiglie, proprio mentre stiamo discutendo il nuovo piano industriale. Lo dichiara il Segretario Generale Fim Cisl, Roberto Benaglia spiegando che la salute dei cittadini, di cui siamo altrettanto preoccupati come per l’occupazione dei dipendenti, non si tutela azzerando i problemi.
Occorre sapere tutti che chiudere l’area a caldo significa automaticamente chiudere tutte le lavorazioni a freddo, con ripercussioni gravi sugli altri stabilimenti del Gruppo. Taranto ha diritto di vedere continuare le produzioni attraverso una riconversione produttiva decisa e sostenibile contenuta negli investimenti previsti nel nuovo piano industriale, al centro del confronto col sindacato.
Fermare l’area a caldo significa: mettere Taranto in ginocchio, e contemporaneamente mettere a rischio il futuro degli altri stabilimenti del Gruppo in Italia; distruggere la capacità di produzione di acciaio italiana proprio nel momento di forte ripresa della domanda; mettere in difficoltà molte industrie italiane manifatturiere. A chi invoca accordi di programma come la soluzione a cui tendere, ricordiamo che non c’è nessun futuro credibile e certo per il lavoro a Taranto senza la siderurgia.
Chiediamo al neo Presidente del Consiglio Draghi, ai ministri Cingolani per la Transizione ecologica e Giorgetti per lo Sviluppo Economico, a cui garantiamo la massima collaborazione, di convocare immediatamente tutte le parti ed assumere subito decisioni e provvedimenti che non mettano in ginocchio il polo siderurgico e che rendano possibile far diventare Taranto il principale produttore di “acciaio verde” in Europa.
Il sindacato non assisterà con le mani in mano a questa grave incertezza, per la quale rischiano di pagare il conto i 10.700 dipendenti e le molte migliaia di lavoratori dell’indotto.