Ogni riforma (grande o piccola che sia) richiederebbe sempre un periodo di assestamento soprattutto quando alla modifica della norma si accompagnano cambiamenti sociali, ovvero quando siano proprio le esigenze del contesto sociale ed economico a fare da sfondo all’intervento normativo, come avviene quasi sempre nella materia del diritto del lavoro. Se ciò è auspicabile in condizioni economiche “normali” sarebbe forse ancora più auspicabile in un momento particolarmente difficile come quello che stiamo vivendo, se tuttavia la necessità di interventi urgenti – quindi correttivi – non fosse dettata proprio dall’obiettivo di rendere lo strumento normativo più flessibile e quindi più adattabile e amministrativamente “leggero”.
Si era così da poco affievolito l’eco e la risonanza pratica delle novità introdotte dalla Riforma Fornero (L. n. 92/2012) e dai suoi successivi correttivi in materia di lavoro a termine (il D.L. n. 8372012, convertito con modificazioni in L. n. 134/2012 e il D.L. n. 76/2013, convertito con modificazioni in L. n. 99/2013 ai quali si è aggiunta anche la legge di stabilità per il 2014, la L. n. 147/2013) quando, proprio per soddisfare una diffusa, ancorché necessariamente accorta, esigenza di eliminare ulteriori restrizioni in materia di contratto a termine, il legislatore è nuovamente intervenuto in questa materia. Intervento che ancora una volta ha toccato, in un arco temporale di un solo biennio, l’art. 1 e l’art. 4 del D.Lgs n. 368/2001. Intervento che, tra l’altro, affidato ad un decreto legge, quindi ad un provvedimento d’urgenza (che richiede la conversione in legge) sconta probabilmente, nella sua formulazione letterale e nell’assenza di disposizioni di coordinamento con le disposizioni previgenti, qualche difficoltà interpretativa che potrebbe determinare anche il rischio, in prospettiva, di nuovo contenzioso legato ad esempio alla proroga del contratto oppure al mancato rispetto dei limiti quantitativi previsti dalla legge.
Ma cosa cambia in concreto rispetto al passato? Cambia molto in realtà, perché a decorre dal 21 marzo 2014 (data di entrata in vigore del D.L. 20 marzo 2014, n. 34) quella che era stata introdotta dal legislatore del 2012 come eccezione in materia di contratti a termine – cioè la così definita a-causalità – diviene la regola. Infatti, per effettuare un’assunzione con contratto a tempo determinato non sarà più necessario specificare nel contratto la causale, cioè la ragione (tecnica, organizzativa, produttiva o sostitutiva) che la legge ha sempre richiesto per giustificare la presenza in azienda di un lavoratore non assunto a tempo indeterminato.
Sono però previsti dei limiti, necessari proprio per evitare che l’uso non corretto di tale forma di contratto possa portare a deviazioni dalla regola base dell’assunzione con contratto a tempo indeterminato, tali da far sì che il numero dei lavoratori assunti con contratto a tempo determinato possa superare, all’interno dell’azienda, il numero dei lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato, generalizzando l’uso di uno strumento contrattuale che deve invece rimanere circoscritto entro precisi limiti temporali (nello spirito della Direttiva Europea 99/70/CE dalla quale la disciplina del contratto a termine introdotta nel 2001 trae i propri principi guida).
Vediamo, in sintesi, quali limiti pone ora il legislatore in materia di contratto a tempo determinato, definitivamente a-causale:
- innanzitutto viene ribadito l’obbligo della forma scritta per la stipulazione del contratto. Forma scritta che prima era legata alla necessità di dare evidenza alla causale del contratto e che ora è finalizzata proprio a dare evidenza al rispetto dei limiti temporali massimi per l’assunzione con contratto a tempo determinato (anche nel quadro di una somministrazione di lavoro);
- il contratto a termine a-causale non potrà avere una durata superiore, nel complesso, a 36 mesi, ossia tre anni (comprendendo quindi le proroghe – previste fino ad un massimo di 8 volte nei tre anni ma per la stessa attività lavorativa – e i rinnovi, che devono comunque rispettare i termini di interruzione previsti dall’art. 5 del D.Lgs. n. 368/2001 tra la conclusione di un contratto e la stipulazione di quello nuovo). Si noti che nel computo del periodo massimo di presenza in azienda con contratto a tempo determinato vengono considerati anche i periodi in cui il lavoratore sia risultato in forza sulla base di un contratto di somministrazione di lavoro;
- il numero massimo dei contratti a termine stipulabili da ciascun datore di lavoro è fissato nel 20% dell’organico complessivo (organico da computarsi al momento della stipulazione di ogni nuovo contratto). Fanno eccezione le micro-imprese (fino a 5 dipendenti), le eventuali diverse previsioni contenute nei contratti collettivi nonché le altre situazioni particolari, già previste dalla legge (art. 10, comma 7 D.Lgs. n. 368/2001), nelle quali non opera il limite percentuale o perché riferito ad esempio a ragioni di tipo sostitutivo ovvero a stagionalità oppure perché riferito a fasi sturt-up identificate dai contratti collettivi.
Come può vedersi da questa sintetica esposizione delle novità appena introdotte, non sarà facile il lavoro degli interpreti, per molteplici motivi: si pensi ad esempio alla circostanza che il legislatore non ha fornito alcuna indicazione in merito al computo nel limite del 20% dei contratti già in essere, oppure al fatto che il contratto a termine e la somministrazione di lavoro sono contratti tra loro profondamente differenti e che il predetto limite non dovrebbe riguardare, quantomeno ad una interpretazione letterale della norma, i contratti di somministrazione, oppure, ancora al fatto che la norma parla di “organico” e non di dipendenti, quindi legittima il dubbio in merito al computo, nel limite percentuale, di tutte le tipologie di contratto anche quelle, in ipotesi, di tipo parasubordinato.
Paola Salazar Avvocato – Studio legale G. Ciampolini