Intervista a Giuseppe Venier, Amministratore Delegato di Umana SpA, un’importante Agenzia per il Lavoro italiana con 119 filiali sparse sul territorio nazionale. Veneziano, classe 1968, si occupa di lavoro fin dagli anni universitari, laureandosi in Economia e Commercio con una tesi sulla “flessibilità e mobilità del lavoro e del capitale”. E’ alla guida di Umana dal 2001. Da molti anni è sul campo ed ha una conoscenza diretta delle principali problematiche del mondo del lavoro. Ecco cosa pensa del Jobs Act e del ruolo che potrebbero giocare le Agenzie per il lavoro.
Siamo alla vigilia dell’ennesimo cambiamento delle regole del lavoro. Dopo la riforma Fornero di poco più di un paio di anni fa, adesso è il turno del Jobs Act del governo Renzi. Il tema di fondo è sempre la flessibilità. Qual è la sua opinione?
Il disegno di legge in discussione per molti versi conferma il trend avviato negli Anni ’90 dalla legge Treu, che ha introdotto per la prima volta il contratto interinale nel nostro Paese e che negli anni successivi, tra alti e bassi, ha visto un progressivo consolidamento della flessibilità tutelata che passa dalle Agenzie per il lavoro. Nel 2003 la legge Biagi ha potenziato il nostro ruolo dandoci la possibilità di operare come soggetti fondamentali del mercato del lavoro a 360 gradi, ampliando i nostri compiti. La legge Poletti di alcuni mesi fa e adesso il Jobs Act rappresentano una tappa ulteriore di rafforzamento del nostro ruolo in più direzioni e in particolare nelle politiche attive del lavoro. Il tema della flessibilità, poi, è affrontato nel modo giusto. In altre parole, è decisivo distinguere la flessibilità tutelata, che è quella che passa dalle Agenzie per il lavoro e il contratto di somministrazione, dalla cattiva flessibilità che si esprime nella precarietà senza regole e garanzie e nell’utilizzo illegale delle false partite Iva e delle false collaborazioni. L’impianto generale del disegno di legge riflette questa impostazione laddove prevede una decisiva sforbiciata alle tante forme contrattuali presenti oltre all’introduzione di ulteriori limitazioni e paletti all’utilizzo fraudolento dei contratti del lavoro autonomo e a favore dell’unica flessibilità consentita, ovvero quella del lavoro temporaneo tutelato e subordinato. Mi pare che in questo modo stiamo andando sempre di più verso l’Europa.
L’altra faccia della medaglia della flessibilità è la sicurezza. Oltre alle forme contrattuali della flessibilità garantita è indispensabile prevedere delle adeguate e universali forme di protezione sociale per i periodi di non lavoro impliciti nei rapporti di lavoro temporanei. Parliamo della flexisecurity. Come possiamo costruire il welfare della flessibilità?
Oltre l’aspetto contrattuale, l’altro tema di fondo della riforma del lavoro sono le tutele. Il primo nodo da sciogliere è capire se volgiamo continuare a pensare le tutele nel posto di lavoro oppure se è giunto il momento di spostarle nel mercato del lavoro. A me pare evidente che nel momento in cui è entrato in crisi il “posto fisso”, così come l’abbiamo conosciuto negli anni passati e il lavoro è diventato strutturalmente flessibile, le tutele vanno spostate verso il mercato del lavoro. E’ finito il tempo in cui si pensava di tenere in piedi un posto di lavoro per “legge”. Questo modello non è più sostenibile. Dobbiamo ricalibrare le politiche del lavoro verso il potenziamento dei servizi di ricollocazione. La crisi degli ultimi anni, purtroppo, ha trovato molte persone impreparate in questo senso. Ci siamo preoccupati solo dei sussidi e per niente delle attività di collocamento. Le tutele servono a poco quando le aziende chiudono. Per dirla in modo diverso, se ai sussidi non seguono adeguate politiche attive del lavoro e non le circoscriviamo a mero strumento di transizione verso un nuovo lavoro, allora avremo fallito. Una delle soluzioni è garantire un minimo di reddito alle persone nei periodi di non lavoro, in una logica universale, ma contemporaneamente dobbiamo metterle nelle condizioni di potersi ricollocare in maniera efficace e vincolante.
Le politiche attive del lavoro sono il capitolo decisivo da sviluppare per rendere efficace il nuovo modello di welfare della flessibilità. Nel disegno di riforma si prevede un ruolo più forte dei soggetti privati e quindi delle Agenzie per il lavoro. Qual è il ruolo che potrete giocare?
Le Agenzie per il lavoro rappresentano un punto di riferimento in tutte le fasi del percorso lavorativo: da quella d’inserimento alla conclusione del rapporto di lavoro fino alla ricollocazione in un nuovo lavoro, con in più un sistema integrativo di prestazioni sociali e di formazione. Siamo una sorta di paracadute per il lavoro flessibile e possiamo esserlo per tutti coloro che perdono il lavoro, prendendoci cura delle persone nell’arco dell’intera vita lavorativa e professionale in tutte le sue fasi. Siamo parte attiva sia per i lavoratori sia per le aziende. Questo nostro ruolo, che ci siamo guadagnati sul campo, è indubbio. Trovo naturale che nel momento in cui si mette mano alla riforma del welfare e si decide di puntare sulle politiche attive, si decida di valorizzare i soggetti che in questo ruolo stanno ottenendo i maggiori risultati. La logica della premialità e della sana concorrenza tra pubblico e privato, prevista già nel contratto di ricollocazione introdotto in via sperimentale nella Legge di Stabilità dello scorso anno, è la strada giusta.
Il tema dell’occupabilità delle persone è generale, riguarda tutti e prescinde la condizione contrattuale. Voi vi occupate prevalentemente di somministrazione, e in questo caso avete un sistema di matching e di prestazioni integrative sviluppato. Per chi ha, invece, altri tipi di contratti la strada verso la ricollocazione è spesso solitaria. E’ pensabile arrivare ad una sorta di obbligatorietà dei servizi di outplacement per tutti coloro che perdono il lavoro?
Credo molto nell’outplacement, che ai più oggi risulta ancora sconosciuto. Si tratta di uno strumento, da attivare nei momenti di conclusione di un rapporto di lavoro, utilissimo. Voglio dirlo chiaramente: l’outplacement funziona. In questo senso mi convince l’idea di trovare una qualche forma di obbligatorietà e di estensione generalizzata a tutti i lavoratori di questo servizio. Non dobbiamo dimenticare che in molti casi le persone che si trovano nella condizione di perdere il lavoro, vivono questa situazione con forte disagio e disorientamento. Sono sole con se stesse. Questa solitudine va “spezzata”, soprattutto in un mercato del lavoro strutturalmente flessibile. E’ il modo migliore per farlo è garantire una serie di servizi utili allo scopo in grado di ridare fiducia: questo è l’outplacement.
Trovo grave che su questo strumento in molti casi prevalga ancora una logica di colpevole sottovalutazione. Spesso capita che si realizzino dei veri e propri imbrogli nei confronti dei lavoratori ai quali in cambio di servizi di outplacement si offrono misere e miopi proposte di monetizzazione con proposte di mille euro o poco più! Allora ben venga una norma che renda obbligatorio questo strumento. Noi ci siamo.
Spesso il passaggio da un lavoro all’altro passa anche dalla riqualificazione professionale, che prescinde l’età anagrafica del lavoratore. Un percorso di apprendimento di un nuovo mestiere che necessariamente deve passare dall’esperienza sul campo. Per gli under 29 il contratto principe è l’apprendistato, mentre per chi è sopra i 29 anni non c’è nulla. E’ arrivato il momento di pensare a tutti, giovani e meno giovani?
E’ vero, mancano ad oggi adeguati strumenti di riqualificazione sul campo per gli over 29. Il Testo Unico sull’apprendistato, tuttavia, prevede un utilizzo di questo contratto per i lavoratori in mobilità. Segno che la questione in qualche modo è sentita. Il riordino degli ammortizzatori sociali previsto dalla riforma Fornero a regime prevede, tuttavia, il superamento della mobilità e quindi dell’unico e circoscritto ambito in cui una cosa simile è contemplata. Giudico molto positivamente una prospettiva di superamento del limite di età per i contratti di apprendistato in modo generalizzato o comunque l’individuazione di un nuovo contratto simile per chi è sopra la fascia degli under 29. Come Agenzie per il lavoro potremmo fare molto su questo, prendendo in carica le persone, collocandole anche in più aziende e riqualificarle. Parecchi anni fa abbiamo realizzato un progetto di riqualificazione di donne operaie che uscivano dal settore tessile in profonda crisi riconvertendole nel settore metalmeccanico, con successo. Per riqualificare ci vuole tempo, capacità e strumenti adeguati. Si tratta di uno dei capitoli fondamentali da sviluppare in un mercato del lavoro instabile e in continua evoluzione.
Penso ci siano margini per studiare una soluzione normativa utile allo scopo e magari cominciare con l’individuazione di alcuni ambiti specifici in cui sperimentare la misura per poi giungere ad una sua generalizzazione. Possiamo partire proprio dall’apprendistato in somministrazione superando anche certi “freni” di natura meramente ideologica. Le Agenzie per il lavoro sono ottimi strumenti per fare sperimentazione e soprattutto siamo soggetti autorizzati dal Ministero del lavoro e sottoposti a periodici controlli. Siamo un veicolo per mettere a sistema buone prassi. Quindi, chi meglio di noi?