Giuseppe Biazzo è anche Presidente di Ebitemp, l’Ente bilaterale che garantisce prestazioni integrative di sostegno al reddito, accesso al credito e assistenza sanitaria ai lavoratori in somministrazione. In questa intervista ci spiega perché le Agenzie per il lavoro sono la buona flessibilità e cosa lo convince della riforma del lavoro del Governo Renzi.
E’ in discussione un’importante riforma del mercato del lavoro, il cosiddetto Jobs Act, che tocca da vicino il tema della flessibilità. Come giudica l’impianto di fondo di questo disegno di riforma?
Questa riforma va nella giusta direzione, ossia verso la definizione sempre più marcata della buona flessibilità distinguendola dalla precarietà e dagli abusi. In questo senso vedo una continuità con la Riforma Fornero laddove ha introdotto dei paletti nell’utilizzo improprio di forme contrattuali tipiche del lavoro autonomo, come le finte partite Ive e i contratti di collaborazione, in rapporti di lavoro di fatto subordinati. Fare chiarezza tra flessibilità buona e flessibilità cattiva è un tema fondamentale per il nostro Paese e la riforma in discussione ha colto questa necessità dando maggior valore al ruolo delle Agenzie per il Lavoro. Mi pare questo uno degli aspetti più significativi del Jobs Act in discussione e in riferimento al tema della flessibilità e della modernizzazione del mercato del lavoro italiano.
L’esigenza della flessibilità contrattuale, infatti, non può essere messa in discussione, perché dipende direttamente dall’andamento dei mercati e quindi dall’instabilità della domanda. E’ una questione strutturale. Tutta la partita dal punto di vista delle regole si gioca, invece, sul terreno delle tutele, della legalità e delle garanzie da costruire intorno alla flessibilità e non nella sua negazione. Per far questo il primo obiettivo è sconfiggere la falsa flessibilità e la precarietà. Questa consapevolezza mi sembra ben presente nel disegno di riforma del Jobs Act e in questo senso il giudizio di fondo è positivo.
Perché la flessibilità che passa dalle Agenzie per il lavoro, e la somministrazione, è la buona flessibilità?
Sono molte la ragioni. Dico le principali. Con noi il lavoratore non è lasciato solo ed è accompagnato in tutte le fasi del percorso lavorativo: dalla fase d’ingresso a quella in uscita. E, soprattutto, quando si trova nella condizione di conclusione del rapporto di lavoro noi interveniamo con nostri servizi specifici e di supporto tramite attività di tutela, qualificazione e ricollocazione grazie anche alle risorse aggiuntive proprie del sistema delle Agenzie per il Lavoro. E’ un nostro interesse preciso quello di collocare le persone ed è questo il nostro lavoro. Siamo un modello di flessibilità positiva e tutelata. Oltre ai normali sistemi di protezione sociale, per i lavoratori in somministrazione c’è una garanzia in più, ovvero il sistema della bilateralità di settore che garantisce risorse aggiuntive per attività di formazione, di integrazione al reddito, di accesso al credito e cosi via.
I lavoratori in somministrazione hanno gli stessi diritti e le stesse tutele di quelli con contratto a tempo indeterminato, con l’aggiunta, come già ricordato, di maggiori tutele grazie al contratto nazionale di categoria. Com’è facile cogliere, la flessibilità che passa dalle Agenzie per il Lavoro è l’unica capace di coniugare le esigenze di flessibilità produttiva delle aziende con quella di sicurezza sociale dei lavoratori. C’è un abisso che ci separa e distingue dalla finta flessibilità, quella fatta dalle false partite Iva e da falsi contratti di collaborazione in cui si manifesta la vera precarietà e in cui c’è un evidente problema di legalità.
Spesso accade che molti lavoratori che perdono il posto di lavoro si trovano a dover affrontare da soli il cammino, accidentato, verso la ricerca e la ricollocazione in un nuovo lavoro. Da questo punto di vista siamo davvero molto indietro nell’offerta di servizi adeguati. Nella somministrazione questo ruolo è coperto da voi, ma per tutti gli altri evidentemente no. E’ pensabile giungere ad una sorta di obbligatorietà dei servizi di outplacement?
Sono anch’io dell’idea che l’outplacement venga esteso il più possibile e, in forme e condizioni da approfondire, venga introdotta una qualche forma di obbligatorietà. Coloro che perdono il lavoro si trovano spesso in una condizione psicologica debole che in molti casi sfocia nello scoraggiamento. In queste situazioni diventa indispensabile intervenire con una serie di supporti e di servizi che diano una speranza concreta di ricollocazione. Con l’outplacement si interviene con azioni di sostegno, anche piscologico dove necessario, ma soprattutto si elabora un percorso articolato che porta ad intraprendere reali azioni verso la ricollocazione, che renderei vincolanti anche per il lavoratore. In questo modo chi ha perso il posto di lavoro non è più lasciato solo e l’attività di ricerca di una nuova occupazione diventa professionale e assistita. Penso che questo servizio in qualche modo debba far parte di una sorta di “pacchetto benefits” che va garantito al lavoratore nella fase di conclusione del suo rapporto di lavoro. Le Agenzie per il lavoro anche in questo ambito possono portare un contributo di professionalità ed esperienze riconosciute.
Le politiche attive del lavoro sono il tema cardine di una vera modernizzazione del nostro mercato del lavoro. Sembra che in questo specifico campo le Agenzie per il Lavoro saranno chiamate a svolgere un ruolo decisivo, al fianco dei Centri per l’impiego, in una logica premiante e di sana competizione. In altre parole, lo Stato paga la struttura, pubblica o privata, che riesce a collocare la persona che ha in carico, e quindi a risultato ottenuto. La convince?
Prima di rispondere nel merito della sua domanda mi faccia dire che abbiamo l’assoluta necessità di riformare le nostre politiche di welfare spostando l’attenzione dalle politiche passive verso quelle che favoriscono la ricollocazione delle persone. Per rendere sostenibile la flessibilità del lavoro dobbiamo potenziare e far crescere le nostre politiche attive puntando sul concetto di occupabilità. Lo scopo fondamentale è quello di trovare lavoro alle persone e tutti gli sforzi devono andare verso questa direzione. E’ questa la vera svolta che dobbiamo realizzare. A compimento di questo, l’altra faccia della medaglia è realizzare un sistema di protezione sociale realmente universale che non lasci nessuno indietro.
Nel merito della proposta, invece, che si è concretizzata in via sperimentale con il contratto di ricollocazione voluto dal professor Pietro Ichino, il mio giudizio è assolutamente positivo. L’idea di sviluppare una sana competizione tra pubblico e privato e “premiare” la struttura che ottiene il risultato della reale collocazione della persona in carico, introduce nelle politiche attive del nostro Paese una logica di risultato, ovvero quello di cui abbiamo assoluto bisogno. Da questa impostazione tutti i soggetti coinvolti e l’intero sistema, a partire dai lavoratori, trarranno giovamento. Siamo pronti ad accettare la sfida.
Cosa ne pensa dell’introduzione di bonus e sgravi contributivi che tentano di incentivare il passaggio da un contratto di lavoro a termine ad uno a tempo indeterminato? Gli ultimi Governi hanno pensato a questo strumento per favorire l’occupazione stabile. E’ evidente da questi provvedimenti che il legislatore ritiene decisivo puntare sulla crescita del tempo indeterminato a scapito del lavoro temporaneo.
In generale non credo molto alla capacità di creare lavoro per legge e ad incentivi di questo tipo perché l’occupazione cresce solo se cresce l’economia, gli investimenti, la domanda. Lo sviluppo dell’occupazione lo crea il mercato. Se il mercato cresce le aziende assumono, al contrario non lo fanno. I bonus contributivi, in questo senso, non possono spingere un imprenditore ad assumere in mancanza di nuove commesse.
Lo stesso ragionamento vale anche per gli incentivi di trasformazione di un contratto di lavoro a tempo verso uno a tempo indeterminato. Se un imprenditore ricorre a forme contrattuali a tempo nella maggioranza dei casi è perché ha esigenze produttive temporanee dovute alla flessibilità della domanda e a quel punto anche con incentivi difficilmante assumerà a tempo indeterminato.Ciò detto, non immagino e non auspico affatto un modello di organizzazione del lavoro in cui prevalga la componente di lavoro a termine. Al contrario, sono convinto, sia per i lavoratori sia per le aziende, che il lavoro a tempo indeterminato rimarrà prevalente e maggioritario.